Chiara Saraceno
Dall’inizio della pandemia, quando l’intero sistema è stato stravolto e tutti – insegnanti, studenti, genitori – hanno dovuto rivedere radicalmente ciò che davano per scontato, dalle modalità di insegnamento e apprendimento agli spazi e orari quotidiani, sembra che le preoccupazioni principali della ministra dell’Istruzione siano state il mantenimento del calendario scolastico, la garanzia che nessuno sarebbe stato bocciato e la valutazione degli apprendimenti. Che intere settimane di scuola siano saltate prima che qualche cosa si mettesse in moto, che questo “qualcosa”, sotto l’etichetta di “didattica a distanza” si sia realizzato in modi diversissimi per impegno degli insegnanti, tempo, grado di coinvolgimento forzato dei genitori necessario, accessibilità da parte degli studenti, efficacia a seconda, non solo della capacità degli insegnanti, ma dell’età degli studenti e delle condizioni ambientali in cui vivono – tutto questo non sembra entrato nelle priorità della ministra.
Certo, tardivamente si è preoccupata di far arrivare tablet e computer là dove mancavano a studenti che non potevano permettersene l’acquisto. Meno messa a fuoco è stata la questione della insufficiente copertura di internet e il “banale” problema del costo della quantità di giga necessari ad una famiglia per far seguire la didattica a distanza ai propri figli, specie se più di uno. Ancor meno messa a fuoco è stata ed è la questione delle competenze necessarie per utilizzare la didattica on line. Colpisce soprattutto l’apparente sottovalutazione del fatto che, in un Paese in cui la dispersione scolastica è molto elevata, soprattutto nelle aree e nei gruppi sociali più svantaggiati, il rischio dell’abbandono e della demotivazione da parte di molti studenti sarebbe aumentato esponenzialmente. Nulla è stato previsto per contrastarlo, al di là della generosa iniziativa di molti, ma non la maggioranza, docenti e dell’associazionismo civile.
La scuola come istituzione, a partire dal ministero e dalla ministra, si è sottratta alle proprie responsabilità proprio nel momento in cui il diritto all’istruzione (che non coincide con l’essere promossi) veniva messo più a rischio e nei confronti dei bambini e ragazzi che più erano esposti a quello di non vederselo garantito. Non basta, come ha fatto la ministra nell’audizione alla Commissione Cultura della Camera due giorni fa, ventilare la possibilità di una bocciatura, nel caso una cattiva performance in questi mesi sia stata preceduta da una analoga performance nel primo quadrimestre, se nulla è stato fatto per consentire, stimolare, i ragazzi a recuperare carenze, a rimettersi in carreggiata, anzi il mutato contesto li ha demotivati o ulteriormente respinti. E dire che chi sarà promosso con “debiti” dovrà recuperarli, con il sostegno di attività ad hoc, nei primi quindici giorni di settembre è insieme una delegittimazione dell’utilità della didattica ed una tragica presa in giro. Altro non è, mi sembra, l’idea che si possa recuperare in quindici giorni ciò che si è perso – in termini di apprendimento, ma anche di motivazione, fiducia, riconoscimento – in sei mesi (includendo l’estate) di scuola intermittente, talvolta inaccessibile. Tanto più se coincideranno con la ripresa di una frequenza scolastica in condizioni che saranno ben diverse da quelle “normali” e probabilmente ancora in fase di rodaggio e che richiederanno per tutti un periodo di assestamento riflessivo, di elaborazione dell’accaduto.
Non sarebbe meglio organizzarsi per dedicare i mesi da qui a settembre ad attività che aiutino questi bambini e ragazzi non solo a recuperare gli apprendimenti persi, ma la capacità e il desiderio di farlo, aprendo su questo una discussione con gli insegnanti, ma anche con i soggetti della società civile che con quei bambini e ragazzi lavorano?