L’epidemia di Covid-19 ha inaugurato un nuovo capitolo della relazione tra tecnica e politica. E apre una potenziale nuova prospettiva tecnocratica. Ne erano immagini esemplari ieri prima il question time alla Camera, e poi l’informativa del presidente del Consiglio Giuseppe Conte in un’aula a ranghi ridottissimi, svuotata per ragioni sanitarie e dai Dpcm. Icone (in alcuni casi, con la mascherina) della tardiva parlamentarizzazione di un’emergenza virale che coincide con una crisi politica. Non una crisi di governo, perché le catastrofi di origine esogena rafforzano gli esecutivi, come confermano anche le difficoltà di ricavarsi un ruolo (come sarebbe auspicabile) in questo frangente drammatico da parte di una destra che, a forza di proporsi con le «ricette» populiste, pare capace di gestire più delle emergenze presunte che quelle reali. Ma una vera e propria crisi della politica, «uccisa» dal coronavirus, e che si mostra indifesa di fronte all’imprevisto, come se potesse oramai occuparsi esclusivamente dell’ordinaria amministrazione. Ed eccola, quindi, cedere il passo, nuovamente, alla tecnica. Non più ai professori e agli esperti di economia (che sta terribilmente soffrendo), ma a quelli di virologia, infettivologia e scienze biologiche, con il Comitato tecnico-scientifico insediato dal premier che, attraverso le misure di contenimento del contagio, stabilisce l’agenda pubblica di questi tempi dolorosi.
A volgere indietro lo sguardo, si trova una sorta di precedente illustre. Quello dell’igienismo – espressione del positivismo e pagina gloriosa del tentativo di modernizzazione della nazione – che annoverò un paio di generazioni di medici, clinici e accademici (spesso con incarichi politici, da Agostino Bertani a Luigi Pagliani, da Paolo Mantegazza ad Angelo Celli). Erano gli esponenti del cosiddetto «partito igienista», assai diviso al proprio interno tra scuole e visioni (come capita ora ai telespettatori di vedere nei loro eredi divenuti protagonisti importanti dei talk show), tutti però animati dal «sacro fuoco» (come si diceva all’epoca) di migliorare le pietose condizioni igienico-sanitarie del «Paese reale» dell’Ottocento. Nell’Italia del dopo Unità gli igienisti svolsero una funzione centrale nell’elaborare il concetto di salute pubblica e le istituzioni per governarla, e rappresentarono uno dei pilastri ideologico-scientifici dello statalismo liberale, intrattenendo relazioni non semplici con una classe politica che aveva il controllo assoluto della vita collettiva.
Oggi, nell’età della crisi di legittimità della politica e del trionfo della biopolitica, sotto vari profili il rapporto si è rovesciato, con la classe politica che attribuisce di fatto la responsabilità al comitato di esperti, il quale persegue il proprio obiettivo in maniera totale, secondo la logica propria della tecnica. Nel delegare alla scienza la politica compie un’operazione ambivalente: lodevole, poiché per questa lotta durissima servono le competenze appropriate ma, al medesimo tempo, dà una volta di più l’impressione di non volersi assumere quel «principio-responsabilità» che è quanto il cittadino richiede alla classe dirigente. In una democrazia liberale, spetta ovviamente alla politica il compito di definire e salvaguardare gli spazi di indipendenza dalle decisioni assunte dai tecnici della medicina degli altri sottosistemi sociali (in primis, l’economia e i confini tra interesse pubblico e libertà personali, come evidenziavano su queste colonne Mario Deaglio e Vladimiro Zagrebelsky). Ma, essendo debole la politica, si generano cortocircuiti e incertezze, e viene esasperato il mancato coordinamento tra lo Stato e le autonomie territoriali. Finendo così per amplificare ulteriormente le ansie di un’opinione pubblica già impaurita e sottoposta a uno stato d’eccezione, che deve, per l’appunto, apparire come straordinario e non pronto a protrarsi più a lungo del necessario.