di Roberto Barzanti
Il 25 gennaio 1820 apriva i battenti a Palazzo Buondelmonti, di faccia a Santa Trinita, il Gabinetto scientifico e letterario creato da Giovan Pietro Vieusseux (1779-1863), esperto uomo d’affari nato a Oneglia, di famiglia ginevrina. Stufo delle turbolenze del mercato, decise di fondare a Firenze un’impresa che si occupasse di un più calmo e affascinante «commercio delle idee». E il 25 gennaio, duecento anni dopo, con una stupenda mostra dedicata a Il Vieusseux dei Vieusseux: Libri e lettori tra Otto e Novecento. 1820-1923 (a cura di Laura Desideri), ha preso solennemente avvio un calendario fitto di incontri, conferenze, convegni, esposizioni. Ernesto Sestan, delineando nel centenario della morte il ritratto di chi aveva avuto il coraggio di trasferirsi in riva d’Arno per imboccare una strada assai originale, partì da un interrogativo: perché questo quarantenne che vantava un’esperienza cosmopolita di riguardo scelse Firenze? Il Granducato di Toscana offriva condizioni ottimali per impiantarvi uno stabilimento che, mettendo a diposizione una straordinaria quantità di pubblicazioni (gazzette, riviste e libri) provenienti da tutta Europa e proponendole in lettura o in prestito, contribuisse a formare un’intellettualità preparata e moderna, un ceto dirigente capace di «smunicipalizzarsi». Gli piaceva sfidare «lo scetticismo beffardo» che impediva un’autentica adesione alla causa risorgimentale. L’aria che si respirava in quella parte centrale d’Italia esaltata da Sismondi era più fresca e eccitante delle nebbie che avvolgevano l’austriacante Milano o delle censure che opprimevano la borbonica Napoli. Alle origini della volontà di un uomo discreto, imbevuto di una religiosità riformata, «magari non aliena – notò Sestan – da commistioni illuministico-massoniche», stava la convinzione che quello era un punto adattissimo a costruire una cultura alimentata da senso pratico, da applicare e non predicare, innestando nel dominante moderatismo una spinta progressista e patriottica. E ci voleva uno straniero per immettere in gruppi e personalità spesso in guardingo attrito tra loro un contagioso entusiasmo teso a favorire spigliati e tolleranti rapporti. Il secondo piano di Palazzo Buondelmonti, residenza del celibe e mite organizzatore, divenne un crocevia dove interloquirono personalità che vi approdavano da ogni parte d’Italia e d’Europa. A passare in rassegna gli invitati alle serate del lunedì – poi spostate al giovedì – c’è da rimare stupiti. Mirate iniziative editoriali inoltre producevano libri utili e riviste: tra tutte spiccava la primogenita “Antologia”, e le facevano corona il “Giornale agrario”, l’“Archivio storico italiano”, altre testate ricche di un’intelligenza aggiornata dell’attualità politica. Il modello non era un effervescente engagement, ma un ardito progetto d’impronta liberale, coerente con una prospettiva non priva di realistici e orientati limiti di campo. Vieusseux ci teneva però a presentarsi non come un mecenate in cerca di fama, ma come un curioso organizzatore che si provava a intessere un sistematico legame tra ragioni dell’economia e finalità di alta formazione civile. Fare e disseminare cultura non erano per forza avventure in perdita. E un certo pluralismo non guastava.
Alessandro Manzoni aveva preso alloggio il 29 agosto 1827 all’albergo delle Quattro Nazioni che già il 3 settembre gli si aprivano le accoglienti sale della luminosa dimora. La data è una delle più celebrate, perché in quell’occasione conobbe il conte Giacomo Leopardi, cortese ma chiuso in un suo ritroso silenzio, infastidito dalla loquacità impetuosa di Giovan Battista Niccolini e dalle provocatorie uscite anticlericali («È vero che credete ai miracoli?») dell’amico Pietro Giordani. Ne avrebbe riferito al padre Monaldo in una lettera freddina: «Me la passo con questi letterati, che sono molto sociali, e generalmente pensano e valgono assi più de’ Bolognesi. Tra’ forestieri ho fatto conoscenza e amicizia col famoso Manzoni di Milano, della cui ultima opera tutta l’Italia parla, e che ora è qui colla sua famiglia». Probabilmente Leopardi strinse la mano a Stendhal in uno dei consueti ricevimenti, non si sa in qual giorno. Sempre nel 1828 era transitato nella sede del famoso Gabinetto Heinrich Heine. Nel 1834 è la volta di August von Platen. Nel 1835 lascia una firma un «giovane nizzardo» di nome Garibaldi. Robert Browning nel 1839. John Ruskin nel 1840. A più riprese Fëdor Dostoevskij, che nel 1868 alloggiava con la seconda moglie Anja in via de’ Guicciardini. A fine novembre si lamenta: «Adesso Firenze è un po’più rumorosa e variopinta: per le strade c’è una calca terribile. Molta gente è venuta a Firenze in quanto capitale e la vita è più cara di prima». Nel pomeriggio aveva l’abitudine di andare a leggersi due giornali russi, in pause sottratte alla stesura delle parti finali dell’Idiota. Con la scomparsa dell’amato patron parve crollare un mondo. «Noi siamo sbandati!» sentenziò tristemente Raffaello Lambruschini. E al grido di dolore si sarebbero potuti associare personaggi più ingombranti quali Niccolò Tommaseo e il «candido» marchese Gino Capponi, che reagì rabbiosamente («quel maledetto gobbo si è messo in capo di coglionarci!») ai versi ironici scagliatigli contro da Leopardi in un’acre Palinodia.
Scorrendo il Libro dei soci a pagamento o di quanti chiedevano opere in prestito vien fuori la trama di un romanzo o di una movimentata commedia in cinque atti e relativi cambi di scena. Eugenio, il nipote del fondatore, ottiene in affitto dal sindaco Peruzzi il pianterreno di Palazzo Ferroni, dove il Gabinetto si trasferisce nel 1873, per poi approdare, nel 1898, in via dei Vecchietti n. 5. Ma sopportare gli oneri di uno stabilimento che aveva accentuato, grazie alla sua fornitissima Biblioteca Circolante, un formidabile servizio, dismettendo molto, inevitabilmente, delle ambizioni iniziali, era un peso insopportabile per un privato cittadino. Da Carlo Vieusseux il Credito Italiano acquista il grosso del patrimonio accumulato e lo cede al Comune nel ’23. All’Istituto, grazie ad un decreto del 23 ottobre 1925, è attribuita la dignità di Ente morale di proprietà comunale: alla presidenza il sindaco o suo delegato con un consiglio d’amministrazione di sette membri. Dopo le tre sedi dei Vieusseux si profila una sistemazione nel Palagio di Parte Guelfa, in locali ipogei che non incontrarono il favore del nuovo direttore Bonaventura Tecchi: «poca luce e molta tristezza e parecchia umidità erano in quel venerabile stanzone». Ogni trasloco segna un’epoca e affida alla nostalgia fantasmi e sensazioni: «the past seems to have left a sensibile deposit, an aroma, an atmosphere» ha scritto Henry James nelle Annotazioni fiorentine: il passato sembra lasciare uno spesso sedimento, un aroma, un’atmosfera. E quanti nomi verrebbe voglia di trascrivere per comprovare il risalto europeo che il Gabinetto andò acquisendo! Da Émile Zola a Andrè Gide (che lo trova «admirablement monté»), da Aldo Palazzeschi a Heinrich Mann, da Aldous Huxley a David Herbert Lawrence.
Per la successione a Tecchi è coinvolto un impacciato Carlo Emilio Gadda, che ben presto tira i remi in barca: «Quanto al Vieusseux io mi ci credo poco tagliato». Il presidente Paolo Emilio Pavolini presenta quindi al podestà senatore conte Giuseppe della Gherardesca una terna da cui trarre il nuovo direttore. «Naturalmente – interloquì il podestà – son tutti iscritti al PNF». «Il terzo no» precisò l’estensore. «Nominiamo allora questo terzo, il non iscritto». Era costui Eugenio Montale, arrivato nel ’27 a Firenze per lavorare da Bemporad. E la sua fu una direzione storica, al punto che non sarebbe sbagliato scrivere di un Gabinetto Vieusseux-Montale. Il quale si rassegnò pure ad anticipare di tasca sua – salvo farraginoso rimborso – gli stipendi al personale. Se non un covo di resistenti al regime, i frequentatori dell’Istituto nella sua quarta sede brillavano per anticonformismo. Il titolo della prestigiosa e vivace “Solaria” fu coniato dalla cólta brigata degli habitués, in scherzoso contrappunto a quanto mancava nel catacombale rifugio. Dell’affaccendato poeta resta un quadretto à la Daumier dovuto alla puntasecca gaddiana: «La sua immagine di allora procede verso di noi, come uscita dalle quinte d’un tempo enigmatico […] Con la sigaretta dalla lunga e pericolante cènere nel bocchino di ciliegio, egli si avanza a passetti esatti salutandoci sottovoce, con una formula secca, di timbro un po’ genovese». E sul sacrale ambiente: «Grandi capriate di legno sorreggono il tetto della sala di distribuzione, […] come in una chiesa francescana: al banco signore straniere, talora con un cagnolino con un campanellino al collo». In una primaverile mattinata del 1933 si presenta a Montale una giovane studiosa americana che ha letto con ammirazione Ossi di seppia. È Irma Brandeis, la Clizia sublimata in un enigmatico canzoniere. È il pezzo forte, mélo, del quarto capitolo d’una vicenda cha assomma private occasioni e pubbliche incombenze. Il non iscritto e non allineato Montale non è ben visto dall’ala dei fascisti più duri. Lui per timore di essere messo alla porta si umilia al punto da preparare un memoriale di due paginette per farlo avere, tramite la mediazione dell’anarcoide nero Marcello Gallian a Mussolini. L’11 luglio del ’38 lo interpella: «Tu sei sempre in buona amicizia con S.E. Galeazzo Ciano? E nel caso se ti mandassi il papiro, te la sentiresti di mandarlo per raccomandata e con una tua parola favorevole a Ciano, pregandolo di leggerlo e di farlo avere al Capo del Governo o meglio al suo segretario?». Il memoriale che Pavolini aveva consigliato a Montale di compilare – per chiarire l’infondatezza dei veleni diffusi contro di lui? – non si è mai trovato. Il primo dicembre del fatale 1938 il consiglio d’amministrazione del Vieusseux delibera di «dispensare il dottor Eugenio Montale dall’Ufficio di Direttore». Al licenziamento seguì un brutto contenzioso.
Il quinto Atto ha per scena Palazzo Strozzi ed è tuttora aperto. Protagonista ne è stato il direttore Alessandro Bonsanti, in carica fino al 1980 con una probità e una dedizione che lo accostano più di ogni altro alle virtù dell’austero fondatore. Suo capolavoro è stata la costituzione (1975) dell’Archivio Contemporaneo di Palazzo Corsini Suarez, destinato alla conservazione di manoscritti e materiali relativi alla letteratura, alla musica, al teatro, alle arti plastiche: uno scrigno delle Muse, via via più ampio e capiente. Nelle sue sedi principali il Gabinetto ha 600.000 volumi, 750.000 documenti, 2.900 opere d’arte. Negli ultimi anni le attività editoriali e espositive hanno avuto un fecondo rilancio. Gloria Manghetti è la prima donna a gestire con sapienza filologica la complessa macchina. Anche alla presidenza è stata chiamata una donna, l’inventiva Alba Donati, che punta sulla letteratura dei nostri giorni. È sua l’idea di una specifica sezione dell’Archivio ove conservare autografi delle scrittrici del nuovo millennio. Ripercorrere le stazioni dell’Istituto nei suoi due secoli di multiforme vitalità susciterà anche domande sul domani. La missione da approfondire e ridefinire dovrà sintonizzarsi con mutamenti vertiginosi. Che significa oggi concretizzare un cosmopolitismo all’altezza delle esigenti domande? Il Gabinetto inventato da Giovan Pietro era anche un progetto civile che guardava oltre Firenze. La cultura che vi si produceva aveva il vigore di progetti e di scambi che non si risolvevano in una vetrina di libri né privilegiavano oltremodo la scrittura più o meno creativa. Oggi c’è più che mai bisogno di declinare un condiviso lessico plurale. Rileggere il passato soccorrerà nella «tessitura del futuro».