Cento anni fa nasceva il grande regista. L’attore Bruno Zanin racconta il loro incontro e spiega perché oggi il Maestro non avrebbe festeggiato
di Stefania Parmeggiani
«A Fellini tutto questo non sarebbe piaciuto. Era geloso del suo lavoro, non sopportava chi tentava di appropriarsene ». Bruno Zanin, l’attore che diede il volto a Titta nel film Amarcord , è il grande assente sul set delle celebrazioni per il centenario della nascita del regista. Nessuno ha pensato di coinvolgerlo e del resto lui non è più il ragazzo di un tempo. Ha gli stessi occhi azzurri di allora, ma i capelli grigi di un uomo che alle spalle si è lasciato più di una vita. A 69 anni vive solo ai piedi del Monte Rosa, in una vecchia baita, e tira avanti con un assegno sociale di 472 euro: «Per quel film mi versarono i contributi come giardiniere ». Arrotonda con qualche piccolo ingaggio nel cinema o vendendo tramite Facebook le copie del romanzo in parte autobiografico Nessuno dovrà saperlo , pubblicato la prima volta nel 2006 dall’editore Tullio Pironti e poi ristampato in proprio. Un libro doloroso, nato da una violenza sessuale subìta a tredici anni in collegio. Il missionario responsabile di quegli abusi si impiccò in Venezuela, Zanin abbandonò la scuola e scappò di casa per vivere come un hippie sulle strade d’Europa. Fino a quando non incrociò Fellini e per tutti divenne Titta, il ragazzino dallo sguardo furbo che attraversa la Rimini dei ricordi facendosi specchio dell’infanzia del regista.
Come ha incontrato Fellini?
«Ero arrivato a Roma da randagio, ospite di una donna che mi consigliò per guadagnare qualche soldo di fare la comparsa a Cinecittà. Gustavo Adolfo Rol, il sensitivo torinese, aveva detto a Fellini di smetterla di cercare un protagonista: “Ti troverà lui”. Quando mi vide tra i figuranti mi scritturò, ma senza dirmi che ruolo avrei avuto».
Quando lo scoprì?
«A riprese iniziate. Un giorno in sartoria trovai un copione abbandonato. Non si intitolava Amarcord , ma Il borgo . Lo lessi di nascosto e capii che ero molto più di una comparsa, ma scoprii anche scene che non avrei mai girato».
Ad esempio?
«Titta faceva il bagno al fiume e Naso, interpretato da Alvaro Vitali, gli sfilava i pantaloncini. Mi allarmai moltissimo: pudico come ero, mi stavo già vergognando. In realtà Fellini quella scena l’aveva cancellata. Accadeva in continuazione che si discostasse dal copione. Dovevate vederlo sul set, uno spettacolo! Urlava alla troupe, dava ordini come un imperatore, oppure era istrionico, dolce, protettivo. Con Vitali, un ragazzo incredibile che colmava con l’intelligenza e l’ironia ciò che la natura gli aveva negato, aveva un rapporto speciale: lo trattava con una famigliarità e una simpatia che ci rendeva tutti un po’ gelosi».
Con lei come era?
«Molto tenero: mi scriveva delle lettere che conservo ancora. Una volta, sapute le mie difficoltà economiche mi scritturò per
Ginger e Fred. Di fatto mi pagò per non fare nulla: ero un paziente bendato e quindi irriconoscibile. Secondo lui dovevo restare per sempre il Titta di Amarcord. Invece ho continuato a recitare: Montaldo, Giordana, Ronconi, Brusati, Ferrara. E poi con Strehler al Piccolo, con Lucien Piutilie al Théatre de la Ville a Parigi…».
Perché interruppe la carriera da attore?
«Mi sembrava di vivere una favola di carta, avevo bisogno di realtà. Mi guardavo e non mi riconoscevo, quasi fossi un impostore. Non avevo studiato recitazione, ero un ragazzo di strada».
In che senso?
«Sono cresciuto sulle rive del Brenta in una famiglia povera e contadina.
Ho avuto una infanzia felice, poi decisero di farmi studiare da prete. A tredici anni un sacerdote del collegio, un professore a suo modo sapiente, abusò di me. Lo dissi a mio padre e non mi credette: al tempo non si parlava di pedofilia nella chiesa. Scappai di casa, divenni uno sradicato senza fissa dimora, giravo l’Europa in sacco a pelo e zaino in spalla. Mai avrei immaginato di diventare attore».
Fellini era anche il cantore dei matti e dei marginali.
«Durante le riprese a Cinecittà vide un uomo che si era intrufolato per raccattare gli avanzi dei cestini da pranzo della troupe. Era Vincenzo Caldarola, un senzatetto che viveva di elemosina dalle parti di piazza del Popolo. Lo fece diventare l’emiro del Grand Hotel. Una trasformazione folle, anzi felliniana come si dice oggi».
Lei si sente felliniano?
«Sì, nel senso che sono un Giamburrasca e un rompiscatole.
Sarà per questo che nessuno mi ha coinvolto nelle celebrazioni del centenario. Devo ammettere che in passato ho creato problemi».
Di che genere?
«Ho chiesto che oltre all’ospitalità mi venisse riconosciuto un compenso.
Perché dovrei dare il mio tempo gratuitamente? Le iniziative in ricordo di Fellini sono un circo dove ognuno recita una parte. Ed è un circo a pagamento: studiosi che si accreditano, amici o presunti tali che scrivono libri al limite del pettegolezzo, città che si rifanno il trucco per marketing».
Non le sembra di esagerare?
«No, dico ciò che penso».
Voltiamo pagina. Negli anni Novanta è finito in Bosnia.
«In televisione passavano le immagini terribili della guerra.
Decisi di partire per aiutare quella gente, ma forse lo feci per me, per recuperare l’infanzia e i giorni in cui sognavo un futuro da buon samaritano. Incontrai un altro italiano che era laggiù per salvare la famiglia di un ragazzo conosciuto a un semaforo. Mi accodai a quell’impresa sgangherata. Poi entrai a far parte dell’ong francese Emmaus Internazionale e presto iniziai a raccontare la guerra per alcune radio e giornali italiani.
Rimasi in Bosnia tre anni e tornai profondamente cambiato: sindrome da stress post traumatico».
Come ne uscì?
«Scrivendo. In molti mi avevano consigliato di farlo: Fellini, Elsa Morante, Giovanni Comisso… Non li avevo ascoltati, ero un lettore vorace, ma con una cultura bastarda. Come potevo scrivere? Raffaele La Capria mi disse di darmi un metodo, di non preoccuparmi della punteggiatura perché a quella ci avrebbero pensato gli editor. Quando uscì Nessuno dovrà saperlo, Ferdinando Camon scrisse che il mio libro non si poteva dimenticare».
Oggi cosa fa?
«La provvidenza ogni tanto mi fa l’occhiolino e mette sulla mia strada qualche particina al cinema. Quei soldi li spendo per sopravvivere e vedere il mondo: viaggio low cost e ho amici che mi ospitano pressoché ovunque. A Natale ho fatto il cammino di Santiago, poi sono stato in Montenegro e qualche giorno fa a Rimini. È incredibile, lì Fellini è ovunque».
Più che altro doveroso: tutto il cinema di Fellini è Rimini e Rimini è il cinema di Fellini.
«Se potesse, sono certo che tornerebbe dalla tomba per prendere tutti a calci nel sedere. Me compreso, che ho iniziato questa intervista dicendole che non volevo parlare di lui e mi tocca concluderla chiedendo scusa: Fellini perdonaci».