La cicatrice che cammina

 

 

La rotta dei siriani in fuga attraverso la Giordania e il Libano, e da lì verso l’Europa, non ha mai smesso di sanguinare: «Come una cicatrice che si riapre e si chiude». Idomeni e Lesbo in Grecia, la valle della Bekaa in Libano, i campi di Zaatari e Azraq in Giordania, le tende, il filo spinato alle frontiere, le stazioni degli autobus, le spiagge su cui si accasciano i gommoni sgonfi, i giubbetti di salvataggio arancioni ricordo di una traversata tanto breve quanto terribile: la diaspora siriana ha toccato buona parte del Mediterraneo e dell’Europa cambiando la storia degli ultimi nove anni. Segnando — soprattutto — in modo indelebile i corpi e le anime di un popolo protagonista involontario di un conflitto sanguinoso.

Bianco e nero, volti, storie e luoghi. Il reportage Nadab — «cicatrice» in arabo — inizia nel 2015 al confine tra Serbia e Croazia. «Allora la frontiera era ancora aperta e ogni giorno transitavano tremila persone», spiega Alessio Cupelli, autore di una mostra ora a Roma curata da Chiara Capodici. Sono i mesi in cui i siriani scappano da tutto. Dai barili bomba del regime di Assad, dagli assalti dell’Isis, dagli abusi dei gruppi jihadisti dell’opposizione su donne e ragazzini. Raqqa, Aleppo, Deir Ez Zor, Hama, Idlib. Racconti, tratti di rotta, mappe tracciate su fogli e sugli schermi dei telefoni: la tappa successiva è Idomeni, il campo al confine tra la Grecia e la Macedonia del Nord, dove per mesi rimangono bloccati in migliaia e dove si consumano rivolte, abusi, suicidi. Qui Cupelli arriva nei giorni più duri, quando anche portare aiuto diventa impossibile.

A lasciare la Siria in questa diaspora sono state oltre sei milioni di persone dall’inizio della guerra civile, nel marzo 2011, e non c’è stata organizzazione non governativa in Europa che non si sia trovata a lavorare sulla crisi siriana, mentre la propaganda populista ha alzato progressivamente i toni e la politica della porta aperta si è infranta contro le resistenze del «noi prima di loro». Non è un caso dunque che al fianco del fotografo in questo lavoro ci siano gli operatori di Intersos impegnati nei Balcani, in Grecia, in Libano, in Giordania e in Iraq. È infatti dalla collaborazione con la Ong italiana che nasce Nadab. «Proteggere, nel linguaggio umanitario, significa mettere in atto ogni intervento finalizzato a garantire il pieno rispetto dei diritti dell’individuo riconosciuti dal diritto umanitario internazionale e dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Nella crisi siriana però questi principi hanno avuto un valore e una forza maggiore dal momento in cui il flusso dei rifugiati è arrivato fino alle nostre porte, coinvolgendoci tutti in prima persona», sottolinea Konstantinos Moschochoritis, segretario generale di Intersos.

Sulle orme dell’esodo, Nadab tocca allora luoghi di mezzo, non-luoghi e neo-luoghi: frontiere e transiti, campi profughi, insediamenti informali, periferie urbane, stazioni, porti e vie di comunicazione. Il passaggio di vite crea accampamenti ma anche relazioni che le immagini raccontano attraverso i volti dei rifugiati. Come quello di un anziano proveniente dal nord della Siria: «Dopo l’inizio della guerra quest’uomo riesce a mandare i suoi figli e le sue mogli in Europa. Tutti passano dalla rotta balcanica e arrivano in Germania. Lui rimane in Siria per vendere il suo gregge, sistemare gli ultimi affari e soprattutto per occuparsi di un altro figlio portatore di handicap. Quando decide anche lui di mettersi in cammino, dopo avere passato il confine con la Turchia, resta però bloccato a Idomeni in un limbo di documenti, regole e cavilli burocratici. Ed è lì che l’ho trovato con il volto fiero e la postura dignitosa», ricorda Cupelli.

Passaporti, documenti, permessi e soldi da versare nelle tasche dei trafficanti. Dall’Europa il racconto si sposta a ritroso verso il centro della crisi. Fino al Libano e la Giordania, gli Stati limitrofi, dove si trova l’87 per cento dei rifugiati siriani. Gli Stati che più hanno fatto in termini di accoglienza e al tempo stesso di sfruttamento. «Lì l’incontro decisivo — continua il fotografo — è stato con una famiglia con quattro bambine bellissime. Dopo avere attraversato il confine i genitori si sono visti rubare i documenti, con il risultato che la moglie viene portata in un campo, dove partorisce, e il marito finisce altrove. Si ritroveranno solo dopo mesi, perché lei riesce a fuggire mentre lui ha continuato a lavorare come elettricista facendo ogni giorno dieci chilometri a piedi». È con questo padre che Nadab prosegue in un cammino durante il quale ogni genitore sperimenta il dramma di non riuscire a sfamare i propri figli e di non poter proteggere le proprie donne.

Cupelli in quattro anni non ha mai smesso di fotografare. E quest’estate, quasi a chiudere il cerchio, è tornato in Grecia, a Moria, in uno dei campi più affollati d’Europa, dove ancora una volta le cicatrici visibili e invisibili parlano di un passato di case distrutte, di pupazzi lasciati nei letti e di vestiti buttati nelle valigie alla rinfusa. Ma anche di una domanda che si presenta di continuo: «Torneremo?». È forse questa la ferita più profonda della Siria, un Paese rimasto senza giovani: la maggior parte di loro non solo non sogna il ritorno ma, anzi, lo vive come il peggiore degli incubi.

 

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