C come Caino

“Per Caino. Perché non possiamo non sentirlo fratello. Perché ha riconosciuto dignità al sangue”. Con Alessandro Dehò, per un Nuovo Alfabeto del Sacro

Più che sigillare il patto con Dio, Genesi è il libro che fa scempio di tutti i patti. Registra una lontananza, sempre più radicale, irreversibile: Dio maledice la serpe e pronuncia, a mannaia, la condanna sull’uomo, lo decentra da Eden; poi maledice Caino, stirpe di Adamo, costretto alla vita raminga, tra mura, murato nell’abominio. Uccidendo il fratello, Caino si annoda col sangue al suolo; con la morte di Abele scopriamo che l’uomo, dunque, muore, è cosa mortale, grido di carne, cosmico singulto. Spietata la norma di Dio: Abele può uccidere i “primogeniti del suo gregge” in onore al Signore (patto con l’Altissimo); ogni altro assassinio, turba della terra, è punito. Per riannodare i fatti al primo, ci sarà bisogno del Figlio, torturato e appeso al legno, diluvio di sangue – ogni creazione va rigenerata nell’altra.

Caino mente – “Non lo so” risponde al Potente che gli chiede conto del fratello – per questo Caino “divenne costruttore di una città”; i suoi eredi sono i fondatori della pastorizia (“fu il padre di quanti abitano sotto le tende presso il bestiame”), della musica (“fu il padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto”), dell’artigianato (“padre di quanti lavorano il bronzo e il ferro”). Le arti provengono dalla menzogna; la città, superbo emblema dell’uomo, contrappunto alla sua mente, è menzogna in muraglie, alcova di bugie. Set, il fratello di Caino, dato ad Adamo in sostituzione di Abele, è un Abele minore, minorato, sul minareto dell’obbedienza, ha tradotto il vento (Abele/Havel), il fiato, in preghiera, lode a Dio, respiro sacrificato al Potente: “a quel tempo si cominciò a invocare il nome del Signore”. Set non fa che invocare, tra piroette di labbra appena iniziate. Ecco, il distacco è compiuto: Dio, ormai inarrivabile, si può solo evocare, invocare, con sfarfallio di salmi – nient’altro è dato all’uomo nella sua autenticità (il figlio di Set si chiama Enos, cioè enosh, uomo). Eppure, con Caino, il fratricida, Dio parla, dialoga.

La pietà con cui Dio cinge Caino, sigillata dal segno – “Il Signore impose a Caino un segno” – è spietata, è una clausura. Nessuno può toccare Caino, nessuno può colpirlo: l’armato si sfa, inoffensivo, scotennata è l’indole dell’assassino. Caino, fuggiasco, recluso nella città, ‘segnato’ da Dio, è il rivoltoso rivoltante, Dio lo chiude a sé obliandolo agli altri; Caino è il suo premio, preteso sacrificio. Caino: neppure degno di essere ammazzato; Abele, riscattato da un ricatto, perdono che scardina. Genesi non dà respiro e obbliga a ripensare che cos’è la fraternità, di chi si è genitori; e che ogni vita si scambia con una morte, con un sacrificio. La terra, prima aperta, spaziosa, ora è chiusa, claustrofobica: la nascita di Set “a immagine” di Adamo (di chi è immagine Caino, allora?), ricapitola il creato, obbliga una nuova genesi, anzi, all’esegesi. Esegesi al posto di genesi: il mondo non si vive più, si interpreta; il mondo è il testo, sia lode dunque al sacerdote che lo sviscera, norma per norma, cabbala per cabbala. Dio non c’è più se non in un dettaglio testuale, uno sbrego tra i versi.

Caino ammazza Abele secondo Albrecht Dürer

Secondo l’epica di Luca – capitolo 3 – Gesù, della stirpe di Davide, discende da Set. Eppure, le genealogie sono fatte per esaurimento, i nomi, tutti, devono essere dismessi, involucri vacui: Gesù è chiamato in molti modi, fallimentari, tutti, spalancati al frainteso – neppure l’angelo che annuncia ha coscienza di chi sia il Figlio. Un nome può evolvere in monastero: se ti scherma dall’assalto del Dio vivente, è una menzogna, come un’altra (chi prende la clausura come un fine si chiude al contatto divino). Caino, il segnato, costruisce città; Set, nell’abulia che sfiora l’anonimo, sussurra basiliche di inni, biascica cattedrali.

Gesù, allo stesso tempo, è Set, l’orante; è Abele, sacro Agnello, sussurro a cui nessuno dà credito di storia, respiro racchiuso nella mandorla del sepolcro; ed è Caino, il segnato, lo stigmatizzato. A un Caino “invaso dalla nostalgia”, che “chiedeva perdono,/ sognava una vita nuova” e tenta di “liberarsi dai telai del sangue/ abbracciato all’idea del bene”, Alessandro Rivali dedica il suo estremo libro in versi, il più bello, La terra di Caino (Mondadori, 2021). Quel Caino, inviso, invaso dalla foga per la salvezza, attraversa la Storia fino alle trascinanti aporie: le città a cui ascende sono, sempre, cimiteri. Ogni città è un cimitero, estenuato cimiero ai morti. Tutto, dunque, è convento, istituzione statuaria, liturgia limpida, cioè vuota: che il chiodo strappi le ultime resistenze, buchi la lingua in belato barbaro – la Croce è sempre un bivio.

Con Alessandro Dehò procediamo nella follia di costruire un Nuovo Alfabeto del Sacro. (d.b.)

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Adamo conobbe Eva sua moglie, che concepì e partorì Caino e disse: “Ho acquistato un uomo grazie al Signore”. Poi partorì ancora Abele, suo fratello. Ora Abele era pastore di greggi, mentre Caino era lavoratore del suolo. Trascorso del tempo, Caino presentò frutti del suolo come offerta al Signore, mentre Abele presentò a sua volta primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a Caino: “Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto?Se agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai”. Caino parlò al fratello Abele. Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise. Allora il Signore disse a Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?”.  (Gen 4, 1-9)

Per Adamo e per tutti i padri dissolti nel silenzio, per chi non trova più parole, per chi nemmeno si ricorda di averlo nominato, all’inizio, il mondo. Per chi non crede all’ombra di passi divini a condividere il dramma d’essere nato. Per chi non sa che farsene dell’invadenza di Dio. Per gli uomini nascosti a se stessi, per chi crede di non essere all’altezza, per chi fa un passo di lato, per chi deraglia per umiliazione, per chi non regge l’annichilimento del sogno, per chi perde chi credeva d’amare, per chi scivola fuori dalla scrittura.

Per Eva e per tutte le madri sprofondate nel proprio delirio di possesso, per chi non riesce a lasciar andare un figlio, per chi canta solo per il primogenito condannando a vapore ogni Abele. Per chi crede di poter sfuggire dalla dittatura di una promessa d’amore replicando lo stesso delirio d’imposizione. Per chi non riesce ad essere in altro modo, e ancora crede di saper amare. Per chi condanna al cappio la creatura partorita dal proprio utero, per chi stringe un cordone che non cede a nessun taglio. Per il dramma di ogni donna impaurita che fa quel che può, che sente l’abbandono, che reputa ingiusto tutto questo silenzio. Per chi ha avuto fede, per chi è stata creduta e cantata, per chi ha creduto potesse essere una promessa tutta questa vita. Per la costola orami frantumata. Per chi non si rassegna a dissanguarsi di un amore non corrisposto.

Per Abele, che è solo un soffio, un niente, un fiato di vento che nessuno raccoglie, solo e sempre nell’ombra di un fratello incapace di vedere altro. Per chi è banale conseguenza, niente di nuovo. Per chi arriva in un mondo già sfinito. Per gli uomini che sono solo un’aggiunta e niente più, per chi è troppo lieve per lasciare impronta, per chi non parla mai, per chi non si ascolta più, per chi si rassegna a sentirsi spettatore superfluo perfino del proprio omicidio. Per chi si muove nel mondo senza che nessuno s’accorga. Per chi è usato, sempre, perfino da Dio. Per chi non ha nome, per chi è muto sacrificio, anche dopo morto.

Caino ammazza Abele secondo Odilon Redon

E soprattutto per Caino. Maestoso e bellissimo. Per la verità della sua storia che ci permette di fare luce sui nostri drammi. Perché non ha vergogna. Perché è vero. Perché lontano da ogni falsificazione. Perché è scorretto. Perché è vivo e si ribella. Perché è nato, come noi, fuori dal terrestre paradiso, perché è nato ma non è mai stato consegnato, per le materne ingiustizie incagliate nei suoi occhi e incastrate a vita tra gli spazi del cuore. Per chi è lastra su cui si imprimono senza scampo gelosie, violenze e paure. Perché senza di queste non esisterebbe l’uomo.

Per Caino e per tutti i senza padri. Per chi non riesce a uccidere la madre, per la rabbia che sta sempre accovacciata alla porta in attesa di ruggire un briciolo di giustizia. Per Caino, per il suo istinto, che è la parte più umana concessa alla fierezza degli animali.

Per Caino e la sua condanna a dover decidere dell’esistenza di Abele, perché non ci riesce, per chi non ce la fa. Per chi non vuole costringere a nascita nessuno.

Per la sua incredibile fierezza, perché non cede alla petulante insistenza di Dio, che prima lo umilia e poi lo provoca, per il suo bisogno di essere capito e non solo spinto a diventare adulto troppo presto, perché si può non volere un fratello, perché aprirsi all’incontro fa paura e Dio lo deve capire! Per la fatica di Caino ad essere uomo, per aver resistito all’atteggiamento pretenzioso del Creatore che non si rassegna a considerarci per quel che siamo.

Per il gesto sublime dell’omicidio, perché è una frattura che anche il Creatore deve difendere, perché è il gesto puro della libertà, perché è l’unica ferita da cui si può nascere, perché se ancora scriviamo è per la penna intinta nel sangue colato sulla terra, perché da quel momento la terra ha trovato parola. Perché è stato come iniziare a chiedere a Dio ragione del suo delirio creativo. Perché il Creatore si è immerso nel sangue e ha iniziato a rispondere.

Per Caino e per il suo gesto che antepone sopravvivenza a morale. Perché non possiamo non sentirlo fratello. Perché ha riconosciuto dignità al sangue.

Per loro e per me, non smetterò di implorare parole che non siano solo di commiserazione.

Per il dolore e il dramma che è genesi di ogni storia, perché a rendere sacro un alfabeto è il coraggio di battezzarsi nel sangue.

Alessandro Dehò