Chiunque lamenti l’assurdità del connubio tra “grullini” e “pidioti”, così come si chiamano sui social gli opposti ultras, non può omettere di menzionare la speculare assurdità di una maggioranza politica, quella che ha governato fino a ieri l’altro, che metteva insieme la critica dello sviluppo e il popolo dei capannoni e della cementificazione, il reddito di cittadinanza e la flat-tax, il giustizialismo e l’arte di farla franca, la destra estrema e la sinistra dell’acqua pubblica, eccetera.Le baggianate dietrologiche che accomunano, in parte, la narrazione grillina e quella leghista (il complotto demo-pluto-massonico, la sostituzione etnica pilotata da Soros, l’Europa longa manus degli avidi banchieri…) dimostrano, piuttosto, che le baggianate non bastano a reggere un governo. E per fortuna.
Ovviamente la piena legittimità politica e costituzionale di una nuova maggioranza, opposta alla precedente — anch’essa legittima — non cambia di una virgola il disorientamento, le paure, le perplessità di quella parte di italiani, circa i due terzi, che ancora guarda alla politica con interesse e spirito partecipativo. Tra di essi, gli elettori del Pd sono messi, in questo momento, a durissima prova. Nella peggiore delle ipotesi si sentono, loro malgrado, usati come stampella di un gruppo politico, i Cinquestelle, che dopo avere fallito clamorosamente un’esperienza di governo con la destra più becera, rimangono in sella grazie al supporto di un partito, il Pd, trattato per anni dai grillini come l’incarnazione perfetta del tradimento degli interessi popolari, la sentina dell’affarismo, la casta politicante per eccellenza. Dopo gli sputi, la stretta di mano.
Nella migliore, tirano un sospiro di sollievo per la temporanea neutralizzazione della detestabile prepotenza di Salvini e dei suoi sicari online, del suo schietto antieuropeismo e della sua fellonia putiniana; ma il sollievo, per quanto reale, non basta a guardare con serenità, o con ottimismo, al futuro di un’alleanza di governo che appare, in nuce, destinata alla lite, ai sospetti reciproci, alle incomprensioni.
Qui si vuole provare a dire, senza alcuna pretesa di avere ragione, che la cruna dell’ago, per quanto piccola, c’è. (Non esiste ago senza cruna). Se è vero che il Movimento è nato prima di tutto da una diaspora, generazionale prima che sociale, contro “i padri” dormienti, soprattutto la sinistra e la ex sinistra considerati perduti a ogni istanza sociale radicale, prime tra tutte la battaglia ambientale; allora l’occasione per provare (sotto la costrizione di una comune responsabilità) a parlarsi, o a riparlarsi, finalmente c’è. E se è vero che al Movimento mancano, platealmente, competenze, esperienza e misura politica, un lessico all’altezza dei problemi, magari qualcosa di utile e di spendibile, nella lunga esperienza amministrativa e di governo del Pd, la possono trovare anche i più sospettosi tra i debuttanti grillini, scoprendo che non tutto ciò che è “professionale”, in politica, è malvagio e corrotto.
Il problema, prima ancora che politico, è dunque culturale. Il solo additivo, il solo lievito che potrebbe davvero trasformare un’alleanza forzata tra nemici in un governo quasi vero, quasi utile, è l’umiltà. La capacità di ascolto, la disponibilità a imparare. Già scrivendo queste righe, e voi leggendole, mi rendo conto che la cruna si restringe. Raramente la politica concede ai suoi artefici apertura d’animo quanta ne servirebbe. La politica odierna, poi, è un vespaio di opposte assertività. E non è più l’ideologia, che comunque organizzava gli eserciti, a creare contrapposizione e odio: è il narcisismo, che divide e scompone senza tregua, inesorabilmente.
La spocchia, a sinistra, è un vizio antico. Una presunta indispensabilità, ahimé smentita da molta storia recente, rende spesso le persone di sinistra “già imparate”, e sprezzanti di fronte alle nuove forme, spesso poco eleganti eppure vivaci, della società che cambia. Viceversa, tra i grillini prospera l’ombrosa diffidenza del semplice e del mediocre che vede nel più abile e nel più meritevole solo l’inganno, mai il merito. In entrambe le tribù, dunque, forti elementi di identità, direi di carattere, lavorano contro il possibile miracolo, che è quello — semplice, eppure difficilissimo — che questi inediti partner di governo si parlino limando i rispettivi pregiudizi, e ascoltando con qualche interesse quello che dice l’altro.
Vale poco (anche se qualcosa vale) dire che almeno alcuni punti di vista, specie nelle questioni ambientali, sociali, dei diritti sul lavoro, sono, se non simili, conciliabili. Varrebbe moltissimo approfittare della contingenza per guardarsi in faccia e imparare qualcosa l’uno dall’altro. I pidioti potrebbero aiutare i grullini a capire — per esempio — che destra e sinistra sono concetti tutt’ora utili per definire le intenzioni e i programmi di chi governa; che i modi autoritari e i modi democratici non sono la stessa cosa e non conducono alle stesse conseguenze politiche; che la complessità non è un impiccio da liquidare, ma un nodo da sciogliere con pazienza e intelligenza. I grullini potrebbero insegnare ai pidioti che la politica non si fa (solo) nei palazzi e nei consigli di amministrazione; che quando si dice che esistono alternative al modello di sviluppo, è possibile dirlo per davvero e non perché è una frase fatta; che il lavoro è stato, negli ultimi decenni, umiliato al punto da considerare “inevitabile” un declassamento dei diritti che di inevitabile non aveva proprio nulla.
Ma tutto questo è la cruna. Il resto è tutto ago. Se fossi un bookmaker direi che le possibilità che questo governo serva a cambiare davvero qualcosa sono il 5 per cento. Il rimanente 95 per cento appartiene solo alle scelte obbligate (perché disperate), all’azzardo, al vicolo cieco dal quale provare a uscire arrampicandosi sui muri. Non biasimatemi se faccio il tifo per il 5 per cento.