Sono rimasti appena 200 migranti. Ma le sei vittime degli attentati ricevono insulti nei social Novanta arresti e fogli di via per i pusher. E tanti in fila per andare a trovare il “lupo” Traini
CARLO BONINI,
Dal nostro inviato
MACERATA
Qui dove tutto è cominciato un sabato mattina di sei mesi fa, dove l’Italia ha conosciuto e si è consegnata al fantasma sovranista dell’Uomo Bianco, il tempo si è fermato. Niente fiori, niente targhe a ricordare le vittime della mattanza del “lupo”. Piuttosto, ancora i segni lasciati dal gesso della scientifica in via dei Velini e i fori di proiettile nel bar di Casette Verdini. Un infarto insieme psicologico e materiale.
In una sindrome da Angelo Sterminatore dove, in un’ennesima macroscopica divaricazione tra la realtà e il suo racconto, il carnefice non è e continua a non essere il “lupo” Luca Traini, il ventottenne di Tolentino che il 3 febbraio fece fuoco trenta volte con la sua Glock semiautomatica 9×21. Ma l’Uomo Nero. Nero come la pelle delle sue vittime innocenti ora costrette a nascondersi e a fare i conti con i loro incubi: Jennifer Otioto (25 anni, Nigeria), Gideon Azeke (28 anni, Nigeria), Mahamadou Toure (25 anni, Mali), Kofi Wilson (21 anni, Gana), Festus Omagbon (33 anni, Nigeria), Omar Fadera (24 anni, Gambia). Cancellate, rimosse, mai neppure evocate nel discorso pubblico. Sia la vox populi, piuttosto che la stampa locale. Al contrario della povera Pamela Mastropietro, sulla cui memoria continua a ballare il culto feticista della vendetta e della paura. E che per questo nessuno vuole davvero seppellire. Perché archetipo suprematista della “donna bianca vittima dei neri”.
Luca Traini è tornato nelle Marche una settimana fa. Ma forse sarebbe più giusto dire che non se ne è mai andato. A inizio luglio, aveva dato in escandescenze nella sua cella del carcere di Ancona Montacuto dopo aver appreso degli sviluppi delle indagini sull’omicidio di Pamela e la Corte di Assise — di fronte a cui risponde in giudizio abbreviato di strage aggravata dall’odio razziale, tentato omicidio, danneggiamento — insieme al Dap lo avevano trasferito a Piacenza. Trenta giorni in “osservazione”, dividendo la cella con un detenuto senegalese. Ora che è di nuovo a casa, come racconta il suo avvocato Giancarlo Giulianelli, c’è la fila per andarlo a trovare. «Almeno una decina di amici hanno chiesto i permessi di colloquio». Per ricordargli — come del resto gli ricordano la posta che riceve e il rispetto di cui gode dietro le sbarre — che lui non è solo. Che ha smesso di essere l’outcast, il reietto, che era. Il ciccione complessato che era stato capace di non prendere un solo voto da riempilista per la Lega in quel di Corridonio, quando la Lega a queste latitudini prendeva lo 0,4, e che della Lega ha finito per gonfiare le vele con il suo sabato di sangue, portandola al 21 per cento. Che la “comunità” non lo ha dunque messo al bando. Ma che, al contrario, attende non solo e non tanto l’esito di una perizia psichiatrica che ne dovrà stabilire la capacità di intendere o volere, quanto l’entità della condanna. Perché, al netto dello sconto di pena di un terzo di cui godrà grazie al rito abbreviato, tra i 10 e i 30 anni che potenzialmente ballano tra il minimo e il massimo della pena che lo attende si misurerà la “percezione” che i sei giudici non togati di un “tribunale popolare” daranno di quanto accaduto.
Dunque lo iato tra la patente e l’epica del “martire” nella “liberazione dai neri” e l’implicito lasciapassare ai dieci, cento, mille “lupi” d’Italia che in questa estate hanno cominciato a fare sul serio “tirando al negro” su un ponteggio o su un ciglio di strada.
E dire che in questi sei mesi lo Stato ha provato a drenare l’acqua velenosa cui si sono abbeverati Traini e la sua comunità. L’ex ministro dell’Interno Marco Minniti e il capo della Polizia Franco Gabrielli rivoltarono Macerata come un guanto. Prima ancora che l’onda di piena delle elezioni di marzo consegnasse i dividendi della paura al suo sacerdote, il nuovo ministro dell’Interno Matteo Salvini. Fu cacciato il vecchio questore e mandato in città Antonio Pignataro, un poliziotto di lungo corso, uno sbirro nel senso proprio del termine, cresciuto a Palermo e quindi nella Direzione Centrale Anticrimine, che ha restituito Macerata e le sue 42 mila anime (12 mila delle quali studenti universitari) a una quiete da borgo svizzero. Che ha chiuso con ordinanze i negozi di cannabis light, e contestualmente impedito, in maggio, che i neonazisti di Forza Nuova potessero inscenare in città la macabra rappresentazione di un funerale in absentia per Pamela, «perché — dice — i morti non sono di nessuno. I morti devono poter riposare in pace e non diventare carburante dell’odio» . E che ha messo in fila numeri impressionanti. Da gennaio a oggi, novanta arresti (9 su 10 per stupefacenti), cento fogli di via ad altrettanti cittadini italiani (non “neri”, italiani) con precedenti per traffico o consumo di stupefacenti, 9.500 persone e 8 mila veicoli controllati e due tradizionali piazze di spaccio, come i giardini Diaz (dove cespugli a arbusti sono stati potati ad altezze bonsai per renderne visibile ogni angolo) e il parco di Fontescodella restituiti alla città. E tutto questo mentre la Prefettura riduceva le presenze dei migranti a poco meno di 200 anime, tra quelli assistiti nei cosiddetti progetti Sprar (Sistema di protezione per i richiedenti asilo e protezione) e quelli ospitati nei Centri di accoglienza straordinaria. Duecento migranti, duecento “neri” su 42 mila bianchi. Lo 0,5 per cento. Una goccia nel mare.
Ma la narrazione della Paura non sa che farsene della realtà. E basterebbe un numero per misurare la frequenza psichica della città. Le chiamate al 113 sono mensilmente aumentate del 30 per cento. Prima di quella domenica di sangue di febbraio erano state 1582. Dopo, sono schizzate a oltre duemila, per non scendere più sotto le 1.800. Come se questo borgo nascondesse chi sa quale immanente minaccia.
Del resto, per comprendere uno stato d’animo è sufficiente ascoltare Paolo Bernabucci, presidente del Gus di Macerata. È un uomo mite, colto, curioso, aperto, ma semplicemente di un altro secolo. La sua associazione lavora nella solidarietà da quasi trent’anni. In Italia, come in Iraq, in Kurdistan. E ha la colpa di ospitare e prendersi cura delle sei vittime innocenti del “lupo”. A febbraio, le vetrate della sede, in piazza Mazzini, sono state sfasciate a colpi di mazza. E aver postato un selfie sul sito dell’associazione con ragazzi neri che con pale ed elmetto aiutavano la protezione civile nella rimozione delle macerie del sisma a Monteprandone è costato un’aggressione di rara violenza sui social. «Mi danno, ci danno dei mercanti della solidarietà — dice — Sono arrivati ad accusare quei ragazzi neri, sorridenti nella foto, di lavorare solo perché vogliono il permesso di soggiorno. E il problema non è il migrante in sé, lo straniero. Il problema, drammaticamente, è il colore della pelle. L’Uomo Nero. Questa città, da sei mesi, discute ossessivamente di Pamela, dei nigeriani, ma non ha avuto una parola, non ha trovato un momento per ragionare sull’unico uomo bianco su cui forse valeva la pena interrogarsi.
E non penso ora a Traini. Ma a quel cinquantenne di Mogliano che quando la incontra mentre scappa dalla comunità si pone un solo problema. Negoziare un rapporto sessuale da cinquanta euro in un garage con cui lei si potesse comprare una dose di eroina. A quell’uomo bianco è stato concesso di essere dimenticato. Nessuno lo ha più disturbato. Forse perché quell’uomo è lo Zeitgeist, lo spirito del nostro tempo e di questa città».
Già, non è dovuto scappare l’uomo di Mogliano. Al contrario di Jennifer Otioto, Gideon Azeke, Mahamadou Toure, Kofi Wilson, Festus Omagbon, Omar Fadera.
Trasferiti in mini-appartamenti in piccoli comuni della provincia, hanno lasciato la città, dove hanno paura a rimettere anche soltanto piede. Convinti che qualcuno li ucciderà. Li segue Nigist, giovane donna di origini etiopi, insieme a un pool di mediatori e psicologi. Racconta: «Stanno passando un momento difficilissimo. Continuano a chiedere “perché”. Perché è toccato a loro. Cosa hanno fatto di male. E quando proviamo a spiegargli che chi gli ha sparato è una persona disturbata, la domanda ritorna, perché in quella nostra risposta non trovano alcun senso. Soprattutto in queste settimane. Le cronache che raccontano di aggressioni a migranti in giro per l’Italia li hanno convinti che sono destinati a morire anche loro in questo Paese. Fanno fatica a uscire di casa. Senza contare che, per ragioni che hanno a che fare con le paure ancestrali dei paesi da cui provengono, alcuni di loro che sono stati operati in ospedale temono di aver subito qualche mutilazione interna. Di essere stati privati di qualche organo durante l’anestesia» .
Romano Carancini, sindaco Pd, si passa una mano sulla fronte. Ha lo sguardo e la stanchezza di un naufrago. La consapevolezza sfinita di un pezzo dell’Italia politica orfana di tutto. Di principi ritenuti sin qui non negoziabili, di un partito capace di declinarli e difenderli. È convinto che «l’unico modo per ripartire sia silenziosamente provare a ricostruire il tessuto di questa comunità. Mattone dopo mattone, sperando che una nuova scossa non spazzi via di nuovo tutto». Sa di essere guardato con la benevolenza beffarda del “morto politico” che cammina. Ma rifarebbe quel che ha fatto e chi gli fece guadagnare, nei giorni del sangue, l’epiteto di “sindaco balbuziente”: «Quando ho dovuto scegliere se tenere insieme tutta la comunità, anche quella che non mi aveva scelto, e i miei sentimenti antifascisti, cui aderisco ma che l’avrebbero ulteriormente divisa in un momento drammatico, ho scelto di fare la prima cosa. Molti pensano io sia un ignavo. Più semplicemente non ho perso la fiducia nell’umanità della mia gente. E spero di non sbagliarmi.
Lo dirà il tempo. Perché a questa città servirà ancora molto tempo».