Ma restando con i piedi per terra, se non è Di Maio non può essere nemmeno Salvini, per una questione di prestigio e di parità fra i due soci. Senza contare che un premier politico al di fuori
del binomio finirebbe inevitabilmente per fare ombra ai due leader. Forse ci si arriverà al termine di un negoziato estenuante, nel quale saranno messi sulla bilancia e pesati i vari ministeri,
ma al momento l’accordo non c’è.
Ecco perché ha preso forma l’ipotesi del premier “terzo”. Attenzione: non solo terzo rispetto ai due protagonisti, ma anche ai due soggetti politici. Né leghista né pentastellato. Un nome in qualche misura neutro, per usare il termine che ha conosciuto recente fortuna quando a usarlo è stato il presidente della Repubblica, subito attaccato da chi oggi potrebbe seguirne le orme. Premier apartitico per un governo che reclama di essere l’espressione del ritorno alla democrazia dopo anni — recita una certa retorica — di esecutivi “imposti dall’alto e non eletti dal popolo”.
S’intende che una soluzione “tecnica” per un governo fieramente politico introdurrebbe un elemento di notevole ambiguità. Ma resta possibile per ragioni che riguardano il ruolo dell’Italia nel quadro internazionale. Il che tocca i capisaldi della politica estera, ma anche i temi della difesa e della sicurezza. L’intervento di Mattarella a Fiesole contro le tentazioni nazionalisteed euroscettiche (il «sovranismo») era fin troppo trasparente nel suo significato.
Va chiarito il punto di fondo: se l’Italia vuole essere una spina nel fianco dell’Unione e dell’Alleanza Atlantica ovvero se le trasformazioni imposte dal voto del 4 marzo sono in linea di continuità con la tradizionale politica italiana in Europa e nel mondo. È un nodo politico che va sciolto prima che nasca il governo. La suggestione di affidare Palazzo Chigi a un funzionario di alto rango esperto
nel campo delle relazioni internazionali — si è fatto il nome dell’ambasciatore Massolo — deriva da tale problema irrisolto. È un’ipotesi estrema, forse irrealizzabile, che tuttavia serve
a mettere sul tavolo la questione.
Il fatto che siano i Cinque Stelle a favorire la soluzione “neutra”, con la Lega molto diffidente, mette in luce due aspetti. Il primo: nel “fronte sovranista”, quello che comincia a preoccupare
le cancellerie, l’elemento più duro e “ideologico” è Salvini, mentre Di Maio si muove sulla linea sostenuta dal capo dello Stato. È una frattura che investe la prospettiva stessa del governo giallo-verde. Il secondo: sono i Cinque Stelle oggi a porsi il problema di una classe dirigente. E non esitano a cercarla in personalità competenti di un certo establishment (lo stesso che loro
per coerenza anti-sistema dovrebbero rifiutare). In fondo anche Lenin dopo la rivoluzione sovietica si affidò alla burocrazia zarista per evitarelo sgretolamento della Russia. Salvini viceversa sembra meno interessato al problema. Forse perché ritiene di avere già con sé una classe dirigente. Oppure perché giudica che non si possa in alcun modo annacquare il messaggio politico. Ma la divergenza con l’alleato non è trascurabile.