La rivolta di tanti, anche di quelli più vicini al segretario, trova lo sfogo in una nota di Luigi Zanda. “Le dimissioni di un leader sono una cosa seria, o si danno o non si danno”. Veltroni e Bersani lasciarono il loro ufficio un minuto dopo l’annuncio, ricorda Zanda. Il paragone punta a colpire nel vivo il neosenatore di Firenze. Durissimo dunque. Una dichiarazione di guerra aperta. Si pensa subito che dietro ci sia Franceschini. “Dario marcia con noi”, ammette il capogruppo uscente al Senato. E Gentiloni? Certo. Ma non solo. Quel pronunciamento è condiviso da molti. L’elenco è lungo. Anna Finocchiaro, Marco Minniti, Gianni Cuperlo, Andrea Orlando. Sulla chat degli orlandiani qualcuno scrive: “È matto”, riferito a Renzi. Il ministro della Giustizia risponde con una faccina sorridente. “Sta avvelenando i pozzi”, scrive il lettiano Marco Meloni. Proprio ciò che pensa l’ex premier in esilio a Parigi. Carlo Calenda trova giusta la linea dell’opposizione, sbagliato tutto il resto. “I tecnici avrebbero consegnato il Paese agli estremisti? Semmai è accaduto il contrario. In tutti i sondaggi il governo aveva un gradimento altissimo, di molto superiore al partito”, attacca il titolare dello Sviluppo. Colpa di Renzi, altro che Gentiloni.
Il premier è ferito dal discorso di Renzi. Dagli attacchi e dalle insinuazioni. Il suo tweet notturno di complimenti a Zingaretti rivela la rabbia: “Grazie Nicola. La sinistra di governo che vince anche quando è davvero difficile”. Ma adesso deve prendere una decisione: se essere davvero in campo per convincere Renzi a farsi da parte. Se assumersi la responsabilità di guidare una rivolta e il partito in questa fase. È anche una questione di numeri. La direzione, come dice, Franceschini non è un organismo politico ma “un fan club” renziano. Però i numeri possono cambiare, se si vuole. Orlando, Emiliano, il ministro della Cultura, gli eurodeputati, i membri di diritto e Maurizio Martina possono creare un fronte. La chiave per convincere Renzi a fare un vero passo indietro passa dal passaggio di campo di un pezzo della corrente renziana, di prima o seconda ora non importa. Dall’atteggiamento di Graziano Delrio, tra gli altri, cuore del renzismo non militante, ma autonomo.
Il vicesegretario Martina litiga tutto il pomeriggio con il leader. Volano parole grosse, la tensione cresce. Quando Renzi va alla conferenza stampa, lo strappo è consumato. “Oggi il Pd ha bisogno di una guida collegiale. È una scelta inevitabile e giusta. Punto”. Hanno discusso sugli attacchi al governo, sul ruolo di Gentiloni. Martina aveva dato prova della sua lealtà disertando il consiglio dei ministi in cui fu confermato il governatore di Bankitalia. Ma adesso non condivide nulla e lo dice. “Stai per dire parole tutte sbagliate”, grida. “E devi dare dimissioni vere”. Collegiale dev’essere la delegazione Pd che andrà al Quirinale. Unitaria e condivisa dev’essere la scelta dei capigruppo, mentre Renzi sembra intenzionato a blindarsi: Boschi alla Camera e Dario Parrini al Senato. Ci sono ancora alcuni giorni per capire se Renzi “cambierà passo”, come dice Martina. Altrimenti l’ipotesi è che sia lui, lunedì in direzione, a fare quello che non ha fatto Renzi: dimettersi davvero.