Quel duello tra maledetti toscani.

L’uno per decenni funzionario della Camera, docente di Diritto pubblico e topo d’archivio autore di un’infinità di fortunati saggi sulle nostre istituzioni. E l’altro giornalista parlamentare di lungo corso. Il libro, che Giuliano Amato nella prefazione giudica con ragione godibilissimo, spazia dall’amministrazione del Quirinale ai presidenti che lo hanno abitato.

Giovanni Gronchi è il protagonista di un capitolo. Ma non è il solo. Difatti, in occasione delle elezioni presidenziali del 1955, deve vedersela con il segretario del suo partito, Amintore Fanfani. E lo scontro avviene fin dalle prime battute. Il bello è che entrambi sono esponenti della sinistra democristiana. Ciò nondimeno, o forse proprio per questo, si beccano come due galletti condannati a convivere nello stesso pollaio. Entrambi sono toscani. L’uno di Pieve Santo Stefano, in provincia di Arezzo. L’altro di Pontedera, in provincia di Pisa. E allora tutto si spiega. Come i brevilinei, Fanfani ha l’argento vivo addosso. Non gli basta fare, vuole strafare. È sanguigno, egemonico, divisivo. Come ora usa dire di Matteo Renzi. Chi non è con lui, è contro di lui. Gronchi non è da meno. Al confronto dell’altro, è sornione. Si muove sotto traccia. All’occorrenza, come lo definì Piero Gobetti, è lo spirito di contraddizione fatto persona. Ecco che si capisce perché ingaggino un duello senza esclusione di colpi.

Fanfani è tipo che non si tira mai indietro. Convinto com’è che solo in guerra si muore, mentre in politica si può morire e risorgere di continuo. Lui ne è la dimostrazione vivente. Come un Napoleone in formato tascabile, questo mezzo toscano passa senza soste dalla polvere agli altari e viceversa. Più lo butti giù, più si tira su. Per decenni avremo il nicciano eterno ritorno del Rieccolo, come lo chiama Indro Montanelli. Il cursus honorum di Gronchi, di ventun anni più anziano, ha ben altro spessore. Deputato per tre legislature nelle fila del Partito popolare dal 1919 al 1926. Sottosegretario nel primo governo Mussolini. Aventiniano, decaduto nel 1926 dal mandato parlamentare a seguito della vergognosa deliberazione di una Camera ormai egemonizzata dal fascismo. Nell’immediato dopoguerra ricopre diversi incarichi ministeriali. Dal 1948 al 1955 sarà eletto per due volte presidente della Camera per le stesse ragioni per le quali Palmiro Togliatti designa alla presidenza dell’Assemblea costituente Umberto Terracini dopo le dimissioni di Giuseppe Saragat. Alcide De Gasperi lo sponsorizza per togliersi di torno un avversario fastidioso.

Luigi Einaudi, che succede a Enrico De Nicola nella carica di capo dello Stato, avrebbe gradito la rielezione. Ma Fanfani è dell’avviso che dopo due presidenze «laiche» occorre insediare al Quirinale un uomo eletto nelle liste della Dc. La scelta cade inopinatamente sul presidente del Senato Cesare Merzagora. Con un certo scandalo della destra democristiana. Perché Merzagora è sì personaggio autorevole eletto in Lombardia nelle liste della Dc come indipendente. Ma il banchiere è un laico e ateo dichiarato. Cosicché la sua candidatura nasce con il piombo nelle ali. E i grandi elettori a Montecitorio procedono in ordine sparso. Pietro Nenni candida Ferruccio Parri. Saragat, Paolo Rossi. E nella Dc fanno la loro comparsa i franchi tiratori. Nella prima votazione Merzagora ottiene solo 228 voti. Nella seconda fa come i gamberi e scende a quota 225.

Assecondando il suo caratterino, Fanfani non si dà per vinto. Nella sua veste di segretario del partito, chiede, per non dire intima, a Gronchi di ritirarsi. Ma il presidente della Camera oppone un netto rifiuto perché dichiara che la sua candidatura non è voluta né sollecitata. Alla terza votazione riporta 281 voti, balzando in testa. E alla quarta votazione, quando il quorum si abbassa dalla maggioranza dei due terzi dei componenti alla maggioranza assoluta, Gronchi è eletto alla suprema magistratura dello Stato con 658 voti. A dispetto del veto dell’ambasciatrice degli Stati Uniti Clare Boothe Luce, perché Gronchi era stato contrario all’adesione dell’Italia alla Nato. A volerlo sul Colle più alto sono i socialisti, i comunisti e i democristiani, che obtorto collo aggiungono i loro suffragi solo all’ultimo minuto. Ma vota contro Saragat, che lo considera un pericoloso populista. Il «Peron di Pontedera», lo chiama. Fanfani è sonoramente sconfitto. Ma se ne fa una ragione. Convinto che alle quaresime seguono le resurrezioni.

Quella di Gronchi è una presidenza interventista. Pretende di mettere becco su tutto. E in politica estera entra sovente in conflitto con il governo. Manda cinicamente allo sbaraglio il governo Tambroni, che pure è un suo pupillo, per dimostrare che l’apertura a sinistra, con l’imbarco dei socialisti nella maggioranza e nel governo, non può più attendere. Ma ecco la rivincita di Fanfani. Sarà proprio lui a guidare nel 1960 il monocolore dc, appoggiato dai partiti di centro e con l’astensione bilanciata di socialisti e monarchici, che propizierà il passaggio dal centrismo al centrosinistra. Gli autori del libro riportano una pagina di Montanelli e Cervi a uso e consumo degli amanti del gossip. Ricordano che Gronchi «ebbe un’attività galante (…) che suscitò pettegolezzi e alimentò un’abbondante e piccante aneddotica». E aggiungono che le propensioni all’alcova avevano consigliato alla Dc di opporsi alla candidatura presidenziale di Carlo Sforza nel 1948. Per parte loro Pacelli e Giovannetti sottolineano, se mai ve ne fosse bisogno, che «l’aneddotica sulle imprese galanti di Gronchi, sposato e con figli, si ampliò, com’era ovvio, dopo le elezioni». Cose da far impallidire Silvio Berlusconi e le sue cene eleganti. Mentre Amato sottolinea un aspetto fanciullesco del Presidente: «La passione di Gronchi per i treni, tradottasi non solo nel treno presidenziale con il quale faceva su e giù Roma Pisa, ma anche nella stanza dei trenini, attrezzata al Quirinale come solo un ragazzo avrebbe potuto sognare». Gronchi sarà poi senatore di diritto e a vita.

Ma Fanfani, memore dello scotto subìto, si toglierà ben altre soddisfazioni. Sei volte presidente del Consiglio. Tre volte presidente del Senato. Ministro a getto continuo. Come Georges Clemenceau, soprannominato il Tigre per le sue mordaci battute, anche Fanfani avrà il cruccio di non essere stato mai eletto alla presidenza della Repubblica. Le ha provate tutte, ma senza successo. Durante le elezioni presidenziali del 1971, che si risolvono con la vittoria di Giovanni Leone al ventitreesimo scrutinio (un record!), una scheda contiene queste parole: «Nano maledetto, non sarai mai eletto». In uno scrutinio successivo in un’altra scheda sta scritto così: «Te l’avevo detto, nano maledetto, che non venivi eletto». L’anonimo non fu mai individuato. Ma sarei pronto a scommettere, e non solo per l’assonanza, che si trattò di un maledetto toscano.

 

Giovedì 14 Dicembre 2017, Corriere Fiorentino.

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