Brexit, cosa dice l’accordo tra Londra e Bruxelles.

di Nicolò Carboni

Much ado about nothing, direbbero i sudditi di Sua Maestà britannica e, forse, finiranno per non avere tutti i torti.

Dopo l’ennesima notte di negoziati, linee rosse e ultimatum, il governo presieduto da Theresa May e la Commissione europea hanno concluso la prima fase della procedura che porterà, entro il 2019, all’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.

Molto rumore per nulla, dicevamo, perché leggendo le quindici  ̶  sorprendentemente chiare, nonostante il tipico burocratese eurocratico  ̶  paginette dell’accordo si evince come Londra abbia accolto la massima parte delle richieste dei ventisette, comprese quelle più indigeste all’ala isolazionista del Partito conservatore.

Fino al 2019 i cittadini europei potranno trasferirsi nel Regno Unito senza limiti o vincoli, come avviene ora e, anche dopo la Brexit i loro diritti continueranno a venir tutelati dalla Corte di giustizia europea che, non solo manterrà la sua giurisdizione attuale ma estenderà il suo mandato anche agli otto anni successivi (salvo deroghe fino al 2027 inoltrato, quindi) con, in ogni caso, il vincolo per i tribunali inglesi di rispettare comunque le sentenze della Corte anche dopo il periodo transitorio. Allo stesso modo sul fronte finanziario viene abbandonata la proposta dell’assegno di divorzio concordato fra le parti in favore di un più razionale impegno a rispettare gli oneri già confermati: la Gran Bretagna continuerà a pagare i contributi al bilancio europeo fino alla chiusura dell’attuale quadro finanziario pluriennale (attesa per il 2020) e, in ogni caso, Londra si impegna a saldare anche eventuali debiti successivi qualora alcuni programmi giungessero a scadenza più tardi. Infine anche la tormentata vicenda irlandese sembra aver trovato una soluzione che, seppur di difficile implementazione, pare aver scongiurato la possibile recrudescenza della lotta armata: il Regno Unito, infatti, non imporrà a Belfast un hard border, ovvero una frontiera con muri, controlli, agenti doganali e tutto il resto, mentre chi nasce in Irlanda del Nord avrà ancora  ̶  come oggi  ̶  la tripla cittadinanza, irlandese, britannica ed europea.

Insomma, la strategia negoziale di Michel Barnier pare aver pagato grazie anche all’insperata unità d’intenti dei ventisette Paesi: l’ex ministro degli Esteri francese, infatti, fin dai primissimi contatti col governo britannico ha preferito non imporre vincoli, mostrandosi aperto a ogni possibile compromesso, mentre a Downing Street si attorcigliavano tra improbabili promesse elettorali, faide interne, la sfida di Jeremy Corbyn e l’atteggiamento oltranzista degli ingombranti alleati parlamentari del DUP (il Partito democratico unionista nordirlandese).

La Brexit, insomma, appare sempre meno come un’infausta scelta referendaria, ma rischia di trasformarsi nel più grande fallimento delle classi dirigenti britanniche dai tempi della crisi di Suez: il granitico Partito conservatore, per decenni architrave del sistema istituzionale di Westminster, è alla mercé di una guerra tra bande di cui non si vede la fine, mentre pure l’altissima reputazione del civil service britannico sta finendo nel ridicolo a causa del comportamento quasi grottesco di un pezzo dell’attuale amministrazione (David Davis ha dovuto ammettere davanti al Parlamento di non possedere alcuno studio scientifico riguardo le conseguenze della Brexit).

Per contrasto la Commissione europea, per una volta, è apparsa come un bastione inattaccabile: nonostante gli iniziali timori di possibili accordi separati fra determinati Paesi e il Regno Unito, i ventisette si sono schierati in maniera compatta a sostegno dell’esecutivo bruxellese.

I problemi, però, non sono certo finiti: la fase negoziale più delicata inizia ora, con la definizione dello status britannico post-uscita dall’Unione. Al momento Barnier ha delineato due possibili opzioni, il modello norvegese e quello canadese. Oslo gode di un accesso pressoché totale all’unione doganale e al mercato unico ma accetta le norme europee (pur non contribuendo a definirle), la giurisdizione della Corte di giustizia e la libera circolazione delle persone. Ottawa, dopo la firma del CETA, può esportare i suoi prodotti quasi senza imposizioni doganali, ma, non volendo la libera circolazione delle persone, rimane tagliata fuori dal mercato del settore terziario. A oggi le esportazioni britanniche nella UE sono composte per circa l’ottanta per cento da servizi, finanziari soprattutto, ma pure informatici e tecnologici. Così, se il modello norvegese appare impraticabile per motivi politici (i brexiteers non accetterebbero mai qualcosa di simile alla libera circolazione), quello canadese diventa difficile sul fronte tecnico.

I mesi  ̶  non moltissimi  ̶  che ci separano da marzo 2019 serviranno a risolvere questa contraddizione, posto che il fronte britannico abbia la volontà e la forza per proporre soluzioni credibili. Un accordo razionale, soddisfacente e non punitivo è nell’interesse di entrambe le parti, ma, nelle condizioni attuali, a volteggiare senza rete di sicurezza è Londra, non Bruxelles.