Urs Fischer
Gaia Rau
UNA gigantesca astronave d’acciaio planata nel cuore della notte in mezzo a piazza della Signoria. Un colosso informe, primitivamente naturale, o forse un enorme incompiuto, una sorta di sovradimensionato “Prigione” michelangiolesco. O piuttosto, ancora, una tridimensionale macchia di Rorschach, di cui ognuno può attribuirsi la facoltà di indovinare il significato.
Big Clay #4 di Urs Fischer, e cioè una delle quattro copie esistenti, concessa in prestito dalla V.A.C. Foundation Collection di Mosca, della monumentale scultura metallica realizzata dall’artista svizzero a partire dal 2008, è arrivata a Firenze, cuore di un nuovo progetto espositivo ideato da Fabrizio Moretti e Sergio Risaliti e promosso da Palazzo Vecchio in occasione della 30ª Biennale dell’antiquariato.
Nel 2015 era toccato a Jeff Koons, con la sua abbagliante Pluto and Proserpina
giallo cangiante.
L’anno scorso, extra Biennale, era stata la volta di Jan Fabre con l’Uomo che misura le nuvole e, soprattutto, con l’imponente — ma mai quanto Big Clay — tartaruga in bronzo dal nome Searching for Utopia. Adesso è il turno di Fischer, artista classe 1973 da sempre impegnato in una ricerca sui temi dell’imperfezione e dell’entropia, celebre in Italia soprattutto per aver presentato, alla Biennale di Venezia di sei anni fa, una copia in cera, a grandezza naturale, del Ratto delle Sabine di Giambologna, accesa come una candela e scioltasi nel corso della manifestazione. Un concetto, quello della trasformazione e della deperibilità della materia artistica, ripreso anche a Firenze, dove completano la mostra, curata da Francesco Bonami, due ritratti sempre in cera presentati sull’Arengario di Palazzo Vecchio, fra la copia del David e quella della Giuditta e Oloferne, già palcoscenico dei precedenti lavori di Koons e Fabre: i soggetti sono i 2 Tuscan Men
Moretti e Bonami, mentori dell’operazione, il primo raffigurato di fronte, con l’inseparabile bastone; il secondo di spalle, in piedi su un frigorifero colmo di frutta e verdura, intento a consultare lo smartphone. Accese ieri mattina dopo vari tentativi andati a vuoto, queste due candele antropomorfe resteranno esposte fintanto che la cera non finirà di sciogliersi: un processo su cui vigilerà, quattro volte al giorno, un team di restauratori, incaricati di rialimentare le fiamme in caso di spegnimento. Big Clay, al contrario, dominerà la piazza, con i suoi dodici metri di altezza, per un periodo di tre mesi, fino al 21 gennaio.
E mentre lo stesso Fischer si dice «felice» di assistere all’inaugurazione del suo lavoro «con gli occhi di un turista», Bonami si preoccupa di sottolineare la coerenza filologica di un artista «che rimette la natura al centro di un luogo costruito dall’ingegno umano», creando «un dinamismo di cui ogni città ha bisogno ». Curatori e promotori dell’iniziativa non fingono certo di ignorare che l’operazione Fischer, così come quelle che l’hanno preceduta, non mancherà di sollevare polemiche. Quelle anticipate qualche giorno fa da Italia Nostra, che si interrogava sull’opportunità dell’approvazione di un progetto di tali dimensioni da parte delle Belle arti, e quelle che immancabilmente stanno già dividendo i fiorentini, impegnati sin dalle ore immediatamente successive al vernissage a discutere sui social, con ironia più o meno colorita, della “bruttezza” o della “bellezza” del colosso d’acciaio. Una discussione in qualche modo attesa, ritualizzata, così come il format scelto da Palazzo Vecchio che, ancora una volta, ha deciso di giocare sul dialogo classico- contemporaneo decontestualizzando un’opera già esistente di una star dell’arte di oggi e inserendola come corpo estraneo nell’armonico equilibrio delle icone rinascimentali. «La grande arte fa sempre discutere», afferma il sindaco Dario Nardella, aggiungendo che «non possiamo essere gli schiavi ammuffiti del nostro passato». L’invito, piuttosto, è «ad aprire un dibattito sull’arte pubblica, che coinvolga storici dell’arte, critici, giornalisti». Già ribattezzata da qualcuno, su Facebook, “big troiaio”, se non addirittura “oltraggio alla bellezza della piazza”, Big Clay, frutto dell’assemblaggio di vari ingrandimenti di piccoli pezzi di creta modellati da Fischer nel suo studio — uno sguardo più approfondito sulla superficie ne rivela le impronte digitali — vuole essere in realtà un monumento alla semplicità e alla primordialità del gesto umano che plasma la forma. L’artista stesso, del resto, ricorda quanto l’argilla evocata dall’opera sia in fondo «materiale biblico, originario » per eccellenza. «Fischer — riprende Bonami — è uno degli artisti più influenti della propria generazione. La sua produzione spazia dalla scultura alla pittura, dal design all’editoria: un artista a 360 gradi e rinascimentale in senso del tutto nuovo. Il suo lavoro è costantemente una sperimentazione di nuovi materiali e tecnologie. Una ricerca che non è semplice piacere della provocazione, ma strumento per raccontare storie nuove».