L’«affare Neymar» da business a strumento di soft power.

CALCIO & GEOPOLITICA
Con il trasferimento, oramai imminente, di Neymar dal Barcellona al Psg, il calcio entra definitivamente in una nuova era. In meno di un decennio, il football finanziario e industrializzato si è evoluto a pieno titolo in uno strumento geopolitico di soft power, in un metodo di legittimazione internazionale di rara efficacia. Continua pagina 8 Continua da pagina 1 Come potrebbe essere altrimenti interpretato un affare che non ha precedenti in termini economici (oltre 600 milioni di euro) e che viene architettato dal fondo di uno Stato sovrano per spezzare l’isolamento in cui è caduto negli ultimi mesi? A condurre la trattativa, infatti, è il Qatar Sports Investment, proprietario del Psg dal 2011, e più in generale braccio operativo in ambito sportivo del Qatar Investment Authority istituito dall’emiro Hamad bin Khalifa al­Thani per investire i petro­dollari di Doha e che ha acquisito in poco tempo quote di rilievo, tra le altre, in Airbus, Volkswagen, Lagardere, Hsbc, Credit Suisse e Veolia Environnement. Secondo i rumors rimbalzati nelle ultime settimane dalla Spagna al Golfo, il Qatar Sports Investment ingaggerebbe direttamente Neymar per 300 milioni di euro quale testimonial dei (contestatissimi) Mondiali in programma in Qatar nel 2022. Due terzi di questi soldi (per la precisione 222 milioni, più le imposte) sarebbero poi girati dallo stesso Neymar al Barcellona per rescindere il contratto che lo lega ai Blaugrana permettendogli di accasarsi al club parigino­qatariota, con uno stipendio lordo di 300 milioni per cinque stagioni. Un escamotage che consentirebbe al Psg di dribblare i paletti contabili del fair play finanziario, e che viene contestato dal Barcellona pronto a sporgere formale denuncia alla Uefa. L’organo di governo del calcio europeo peraltro difficilmente potrà restare silente di fronte a un’elusione così palese dei suoi regolamenti che metterebbe a rischio l’intera impalcatura della sua governance continentale. Le tensioni tra i catalani e l’emiro Al Thani sono scoppiate, in realtà, la scorsa primavera. Non solo perché il Barcellona ha umiliato il Psg in una partita di Champions League, estromettendolo dalla competizione, ma soprattutto perché la dirigenza del Barça ha clamorosamente rotto le relazioni “diplomatiche” con Doha. E pensare che il Qatar Sport Investments nel 2010 era stato il primo sponsor del Barcellona che fino ad allora aveva sempre rifiutato di “brandizzare” le proprie divise. Per la modica cifra di 150 milioni di euro sulle maglie blaugrana è così apparso prima il marchio “Qatar Foundation” e dalla stagione 2013­2014 il main sponsor “Qatar Airways”, compagnia aerea qatariota. Tuttavia, dopo gli attentati di Parigi del novembre 2015, il Barcellona ha deciso di non rinnovare l’intesa preferendo i giapponesi di Rakuten. Il dietrofront dei catalani sarebbe stato motivato da motivazioni politiche legate alla presunta vicinanza al radicalismo islamico di Doha. Uno sgarbo che ha indispettito non poco l’emiro Al Thani. La mossa del Barcellona, in qualche misura, ha anticipato quelle dell’Arabia Saudita, degli altri Stati del Golfo e dell’Egitto che hanno interrotto lo scorso 5 giugno le relazioni con il Qatar, accusato di fiancheggiare alcune formazioni dell’Islam radicale (i Fratelli Mussulmani e le loro articolazioni territoriali) e di avere un atteggiamento troppo morbido con l’Iran sciita. Una posizione non inasprita nella riunione tenuta a Manama in Bahrein lo scorso 30 luglio in attesa che il Qatar aderisca alle 13 richieste delle petro­monarchie sunnite. Ad essere messa in pericolo da un perdurante isolamento sarebbe naturalmente anche la Coppa del Mondo di calcio che Doha si prepara ad ospitare con investimenti per oltre 300 milioni al giorno tra cinque anni, la prima in un paese islamico. Arruolare una star planetaria come Neymar come volto del torneo sarebbe senz’altro un colpo ad effetto. Nella primavera 2016 proprio il Qatar ha assunto un ruolo centrale nella fondazione di una nuova istituzione calcistica regionale, denominata Arab Gulf Cup Football Federation, insediata a Doha e guidata dal presidente della Federcalcio qatariota, lo sceicco Hamad bin Khalifa bin Ahmed al­Thani, tra gli uomini più ricchi del paese e cugino dell’emiro al­Thani. Sarà lui ad accompagnare il rilancio del football nell’area (e non solo) attraverso nuovi tornei per le Nazionali e i club di Bahrein, Iraq, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita, Emirati e Yemen. Il calcio insomma potrebbe rivelarsi più utile degli armamenti nell’accelerare il processo di appeasement con i vicini mediorientali e con l’Occidente.
Il Sole 24 Ore.