Insperati incontri di Silvio Perrella (Gaffi, 2017) contiene, secondo indice alfabetico, brevi recensioni, lunghe interviste, conversazioni ricostruite o fissate in radio; tale elastico sillabario si presta ad essere riaggregato lungo diverse direttrici: le poetesse per esempio (Rosselli, Merini, Cavalli), Napoli (su cui bisognerà tornare), i maestri. Partendo da questi ultimi – che stanno tra l’altro in massima parte negli anni ottanta, magari con ulteriori riprese – è possibile tracciare un percorso trentennale dell’autore ed anche, forse, di una generazione critica. Perrella si fa le ossa su Alfabeta e Autografo grazie a Maria Corti, che diceva di considerarlo suo allievo a distanza, quando però il fulgore dello strutturalismo e della semiologia andava velandosi, pur mantenendo ancora grande prestigio accademico. Silvio D’Arco Avalle, filologo romanzo nato nel 1920, nell’intervista datata ’87, rivendica la primazia in quel genere di critica, ma pure segnala il proprio allontanamento dovuto a ripetitività e talvolta illeggibilità. Perrella, a proposito di Corti, scrive: “Poi venne un periodo in cui provai meno interesse per la sua figura d’interprete e di scrittrice. Non so bene perché. Forse avevo bisogno di meno ordine e sapienza.”
Metodi così accampati e imperativi lasciano però, dileguando, un certo vuoto: l’inquietudine della ricerca accosta infatti i nomi diversissimi di Berardinelli e Corti, Avalle e Garboli, Pampaloni e Cases, nonché un persistente interrogarsi sul saggismo e la critica militante. Berardinelli, di cui si sottolinea “l’atteggiamento bifronte”, da un lato teorico e tipologico (con Brioschi e Di Girolamo), dall’altro “conscio che è forse meglio limitarsi a precise descrizioni di singole esperienze”. A cui di rincalzo porre Cases con “il saggio come sintesi tra poesia e filosofia”. Nell’apertura che disorienta Garboli avverte “l’impressione che ci sia un certo desiderio di chiarezza mentale, di lucidità mentale” e Pampaloni aggiunge “saggista è una parola che mi piace poco perché troppo vaga, però sicuramente è una cosa che sta aldilà e al di qua della narrazione, l’attraversa”. Quest’ultimo rivela il suo metodo di recensore concreto, con lapis alla mano, sguardo e attenzione rispettosa per il pubblico.
Ma la critica militante, all’altezza dell’intervento del 1989, è già data ampiamente in crisi per “il prevalere dell’informazione sulla scelta di valore”, mentre secondo Avalle “può dire tutto come il contrario di tutto. Non ci sono parametri, con in più il grosso handicap della manipolazione delle terze pagine”; se Corti sostiene che “tutte le virtù dello scrittore può averle il recensore; il contenuto, però, deve essere umilmente informativo”, effettivamente Perrella ha consumato un tradimento.
Infatti il primo elemento che balza agli occhi fin dal titolo del regesto di cui ci stiamo occupando è la presenza dell’io scrivente: “Dalla finestra sbirciavo il panorama. Ed era un panorama che mi lasciava di stucco: ampio, marino, terso; e spiccava ancor di più perché guardato stando nelle ombre di un salotto e alla presenza bisbigliante di innumerevoli volumi”. Circostanziare la propria presenza, venire alla luce, palesare lo sguardo prelude alla narrazione: “Una volta, ero a Bologna, seppi che a Reggio Emilia si presentava Narratori delle pianure. Presi il treno ed in breve ero lì, ma non avevo fatto i conti con la nebbia. […]” Nella narrazione troveremo quindi i personaggi e i luoghi. Il titolo, lo abbiamo detto, esplicita il macrodato degli incontri: una serie di corpi, voci, sguardi dell’autore con cui si parla, che fa scaturire il ritratto. L’opera viene così ingarboliata, se è lecito il neologismo, con la vita (Garboli e Delfini come modello, Garboli che dice “credo che in qualche modo la vita della Morante ci appaia quasi come una sua nuova opera”).
Quasi tutti gli incontri vengono schizzati a partire da un dettaglio, spesso in movimento che si fa psicologia: “Passarono anni. E con Gerardo Marotta si può dire che divenimmo amici. Quando salivo lo scalone del Sanfelice, andavo da Antonio Gargano e chiedevo di lui. Non volevo disturbarlo; anche perché sapevo che all’improvviso l’avrei visto apparire tutto infagottato nei suoi vestiti, e che la sciarpa e il cappello si sarebbero fusi in una sola figura”; “Fabrizia [Ramondino] aveva una distrazione che a me parve subito leggendaria. Buttava il mozzicone della sigaretta per terra e con il piede provava a spegnerlo, ma il piede era ben distante dal piccolo braciere che produceva la sua ultima cenere.”
Frequente anche il ritratto nel ritratto stimolato dall’intervistatore: Berardinelli con le figure magistrali di Debenedetti e Morante, Cases che racconta sempre argutamente alcuni fondamentali compagni di strada quali Renato Solmi, Fofi, Fortini che “credeva di venire a capo di tutto ma in realtà non veniva a capo di nulla” o tratteggia a tutto tondo il fascino di Ernesto de Martino.
A volte la mise en abîme si fa vertiginosa; Perrella ascolta la “flebile” voce di Pampaloni, che parla della Ortese, a sua volta ritrattista in Il mare non bagna Napoli degli scrittori amici, come Compagnone, cosicché torna un ricordo personale di Perrella in ulteriore stratificazione. Gli incontri sono sempre metodo e virtù, come per La Capria in Rai, che convertiva il lavoro di sceneggiatore “in rapporti con gli autori, conversazioni con gli scrittori, coi registi” o per Italo Ferraro, autore di Atlante di Napoli, il quale scopre presto che il suo libro è “fatto di incontri, di sguardi e a volte di nuovi sodalizi.”
È piuttosto ovvio che l’incontro venga ambientato. Il primo lavoro importante di Perrella, dedicato a Calvino (Laterza, 1999), e di cui qui si rinviene il palinsesto (se ne chiedono lumi a tutti i maestri citati), si apriva proprio con il legame scrittore-luogo: “Alla pari di Marcovaldo, anche Italo Calvino amava attraversare il mondo in diagonale. […] In questa istintiva propensione alla diagonalità fisica – così radicata che dall’autore passa al personaggio – c’è l’annuncio di un destino. Il destino racchiuso nell’immagine leonardesca di un uomo che con il suo corpo traccia nello spazio figure geometriche. […] Si sa che Calvino ha amato la geometria e si sa che Torino è una città prevalentemente geometrica. Era dunque fatale che tra l’uomo e la città avvenisse un incontro e che dall’incontro scaturisse una tale immagine.” La monografia parisiana – Fino a Salgarè da (Rizzoli, 2003) – è del resto organizzata a partire dalle città e da una nascita ideale (“Non sono nato a Vicenza: sono nato a Venezia. In questa semplice frase c’è il racconto implicito di cosa è avvenuto nei giovanili anni veneziani e poi è stato elaborato lungo il resto della vita”), secondo la più generale convinzione di Perrella che lo “slittamento dei luoghi sulla scrittura” sia tipica dello scrittore (non)vicentino.
I luoghi vengono fisicamente attraversati, magari a braccetto dell’autore ritratto, nella modalità allora solitaria del flâneur di Benjamin o del maestro peripatetico, Celati o Ferraro. Qui si apre il vasto spazio napoletano, già esplorato da Perrella in Giùnapoli (Neri Pozza, 2006), e di nuovo tematizzato in una serie d’altri incontri successivi come a provare con diversi specchi le proprie visioni e riflessioni. Sull’abbondante decina di teatranti, intellettuali, scrittori partenopei s’impone La Capria, protagonista del doppio Meridiano curato da Perrella tra 2003 e 2014, per il quale le “immagini primarie” di Napoli risultano decisive per tutta la propria creazione, e non disgiunte da “una civiltà”, “una qualità dell’intelligenza e del sentimento”, segno della città immateriale.
Il paesaggio, oltre che attraversato fisicamente, viene naturalmente osservato, ed è questa un’altra, assai calviniana, caratteristica della scrittura di Perrella. Da un lato l’appuntarsi curioso sul dettaglio rivelatore, come già visto, dall’altro anche l’ambizione allo sguardo distaccato dell’insieme, come dal Vomero si domina giùnapoli: “Italo e io proviamo sempre ad avere una visione dall’alto. Prima c’è la strada il susseguirsi degli edifici, le persone che ci accolgono, poi pian piano arriva il momento dello sguardo largo; quello sguardo che ti permette di formulare un’idea visiva del mondo.” Che è poi quello apprezzato negli autori (“Ed era proprio il regno del visibile che con Narratori delle pianure Celati aveva riabilitato”) e ricercato per sé: “inventare uno sguardo” come programma. Un nesso che approda alla fotografia con Doppio scatto (Bompiani, 2015), tanto valorizzata anche da altri critici della generazione dell’immagine e da tanti scrittori apparsi a cavallo del millennio, Sebald e Safran Foer su tutti.
Una critica dunque che nasce eclettica, incerta e esplorativa sulla consunzione di modelli forti, scientifici o pseudoscientifici, siano essi legati al testo, visibile e invisibile, o a una ideologia progressiva. Vediamo allora di ricapitolarne i tratti mettendo in evidenza gli aspetti problematici. Abbiamo detto autocritic, che tende a mettere in evidenza il sé in narrazione, piuttosto provvisoria e spesso divagante. Qui il problema è verificare quanto si stringe in assenza di serrato argomentare e morso sulla struttura e sul linguaggio dei testi. Significativa certa insofferenza che trapela qua e là rispetto all’approfondimento analitico: “Non so bene perché, in seguito mi venne in mente che Celati era stato per Calvino il rovescio di Pasolini. Quando anni dopo comunicai questo pensiero a Marco Belpoliti, mi disse: – Forse è vero, però devi spiegarlo; devi spiegare perché ti è venuto in mente questo paragone. – Certo, le cose vanno spiegate, Marco aveva di sicuro ragione; ma le intuizioni sono semplicemente delle intuizioni, scatti della mente, e non sempre vanno sottoposte alla moviola.”
Oppure nella monografia su Calvino: “È solo un’ipotesi, suggerita dal gioco delle immagini; un’ipotesi che non ambisce né a spiegare né a far quadrare i conti. Le immagini, è stato proprio Calvino a dirlo, hanno una loro speciale dignità: cercare a ogni costo di trovargli un senso è come mancar loro di rispetto.” Anche il linguaggio del critico può diventare allora metaforico: “In queste conferenze si ascolta una voce seria che parla di sé e degli altri tirando su dal pozzo della memoria acqua depurata. La carrucola che scende non ha cigolii o se li ha non si sentono”; relativamente a De Luca: “le sue frasi stanno in equilibrio sui piani inclinati dell’immaginazione.”
Quanto agli incontri ed ai ritratti sono necessariamente più legati alla narrazione che alla profonda conoscenza critica. Dunque se nemmeno qui mancano rapide definizioni (per esempio De Luca p. 147 o Ramondino p. 411), la sede più adatta sarà la raccolta dei pezzi Addii, fischi nel buio, cenni (Neri Pozza, 2016), il cui titolo rimanda comunque significativamente a qualcosa di frammentario ed allusivo. Gli incontri ravvicinati, specie con maestri o sodali, presentano poi il rischio della presbiopia sentimentale, che connota spesso anche gli studiosi con i loro privilegiati oggetti di studio, cosicché può diventare gigantesca la narrativa di un solo, grande, mezzo romanzo (Ferito a morte).
Lo stesso La Capria, che aveva aderito all’idea di Calvino sull’unione imprescindibile tra romanzo e storia, dichiara adesso che la geografia gli sembra più impostante sempre a partire dall’appartenenza natia: “il paesaggio è una realtà dalla quale non si può prescindere”. Il “transito che dal tempo va verso lo spazio” risalta indubbiamente anche nella critica di Perrella, maturata nel decennio del postmoderno. Ciò che in questo frangente si perde è piuttosto scontato, ma l’ossessione per i luoghi nasconde qualche altra insidia, e cioè, per dirla ancora con La Capria, “la tradizione che s’impone allo scrittore e gli impedisce di parlare di Napoli senza esserne parlato.” E naturalmente il suo risvolto, ovvero la corsa al punto di vista vergine e nuovo, fuori dai discorsi depositati e dai loci communes che può diventare un infinito, e infine vacuo, inseguimento, un inesausto aggiungere, scavare, mutar di prospettiva fino al nulla. Oppure ancora farsi “contro-cartolina”, che nella definizione e nella resa di Ermanno Rea (si riferiva al “rigore”, alla “solidarietà”, alla “precisione” ruotanti attorno al lavoro dell’Ilva) è senz’altro riuscita, ma si pone sempre sul filo dell’opposto stereotipo, ad immediata opera della volgarizzazione massmediale e giornalistica. Per di più la lente magica con cui Ortese guardava la sua città, “fa rifiorire il passato” nel richiamo biunivoco tra luogo e memoria. Relazione feconda e vivificatrice, ma anche passibile di derive conservatrici.
Si respira molta aria di rimpianto nel libro di Perrella. Si dice che Berardinelli definisce il critico senza mestiere, cioè senza lettori e nostalgico di “quel lettore solitario e libero, padrone della propria privacy, ribelle e intrepido cercatore di se stesso o membro di una perfetta società liberale”. D’altra parte Avalle definiva le sue letture di scrittori italiani contemporanei “molto deludenti” e pure il contemporaneista Pampaloni pensa che i grandi del Novecento siano ormai alle spalle; così i suoi ultimi scritti “sono affidati soprattutto all’estro della memoria”, la quale sta alla base di ogni anamnesi a cui sono “dannati”, secondo Garboli, critici e storici. Chiosa allora Perrella: “ Poi ho pensato ancora: Compagnone è forse l’ultima goccia degli anni Cinquanta che si mescola a quella pioggia. L’ultima goccia che, come le altre, evaporerà leggerissima al primo sole. E poi?”
La folta pioggia avvolge il funerale di Renato Caccioppoli, il matematico napoletano. Il pezzo su Rea si conclude in una casa di Roma: “siamo tutti attorno alla bara”. E così recita l’ancipitario lavoro su del 1999: “Calvino era in una bara al centro di una sala sfavillante di colori anch’essi antichi e appena restaurati”, segue descrizione del corpo e del sorriso finale. Senza calcare troppo la mano sulle suggestioni mortuarie, questo libro invita a una riflessione complessiva su una stagione che sembra finendo continuare.