«ci avevano lasciato solo i nostri corpi per combattere»

Ho un macigno nel cuore
di Roberto Vecchioni
In questi giorni che tutti i formaggi, i sughi pronti, gli assicuratori, i detersivi, i bancari, i concessionari si scoprono ad amare come non mai gli italiani che devono comunque comprare per essere felici; in questo semicomico affollarsi di spot che assicurano “tutto andrà bene” ed esibiscono bambini ignari col cioccolato in bocca; in questi giorni che dobbiamo sorbirci su ogni possibile canale stereotipi, ovvietà sesquipedali, stronzate minimali da audience peloso e mascherine così o colà e un metro, un metro e mezzo di distanza e vado al mare o non ci vado, senza nemmeno perderci la sceneggiata parallela di due esimi uomini di legge che “vengo anch’io” “no tu no” e “ah sì? Allora lo dico a tutti”; in questi giorni che come ti muovi sbagli e che il virus c’è e poi c’è ma di meno e il liberismo dopo aver ucciso mezzo mondo sta pure suicidandosi, nessuno, dico nessuno, ha nemmeno per un istante pensato di segnalare che tre ragazzi, tre musicisti, in un Paese non lontano, stavano morendo volontariamente uno per volta in un terrificante sciopero della fame per qualcosa che chissenefrega se si chiama libertà.
Il gruppo musicale è quello degli Yorum. Poco importa se fossero bravi o no. Cantavano un tipo di protesta civile dai toni nemmeno poi così accesi, ché se avessero esagerato, lì in Turchia, forse sarebbero morti prima.
Cantavano parole che noi siamo abituati ad ascoltare da De Gregori, Guccini, perfino da Celentano.
Raccontavano sogni e voglia di vivere insieme, parlavano di uguaglianza, fratellanza, roba che, a eccezione di CasaPound, perfino la nostra destra fa finta di crederci.
Il signor Erdogan si sveglia un mattino che non è quello di Bella Ciao e si chiede “a chi posso rompere le scatole oggi?”. Mette su quattro prove false per dimostrare che il Grup Yorum è affiliato a un movimento rivoluzionario (cioè che non la pensa come lui) di estrema sinistra e gli proibisce di esibirsi in pubblico.
Io ho un macigno dentro il cuore. Chi non è attore, musicista, saltimbanco non sa e non può sapere cosa significhi quel mondo che hai di fronte da un palco e conosci soltanto dai rumori e dai sospiri, dagli urli e dagli applausi, perché le luci che hai in faccia ti accecano.
Per un artista la folla è la vita. Se tolgo a un artista quel palco o una piazza è come a una farfalla le ali, è come togliergli l’anima: chiedetelo al Suonatore Jones di Fabrizio, chiedetelo al Caruso di Dalla.
Questi tre ragazzi si sono fatti mesi e mesi di sciopero della fame, perché senza l’anima del corpo non gliene fregava niente.
Nessuno del grande Occidente si è fatto vivo. Nessuno si è alzato, ha urlato in qualche fottuto congresso dove si ciarla solo di Pil, di spread, di Dow Jones. Ai media figurarsi, non faceva audience.
L’ultimo, Ibrahim Gökçek, è morto dicendo «ci avevano lasciato solo i nostri corpi per combattere».
Quel macigno che ho nel cuore per un simile mondo si chiama vergogna, noia, paura, schifo, viltà, indifferenza e disperazione. Senonché Ibrahim, morendo, ha tradotto tutti questi “si chiama” in amore.
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