Orazio, nell’Ars poetica, diceva che il «Laudator temporis acti», quello che loda il tempo passato è normalmente un vecchio brontolone, bisbetico, lamentoso, censore dei più giovani. Correrò il rischio di rientrare nella categoria nel giudicare le frequenti sospensioni del Consiglio comunale di Firenze, per assenza di partecipanti. Ecco, però, che nella mia memoria si apre una finestra che mi riporta indietro di tanti anni, a quando per la prima volta fui eletto in Palazzo Vecchio, per restarci poi per dieci anni. Fu così che nell’estate del ’75 mi apparve la realtà interna di quel Consiglio che fin da ragazzo avevo visto dal di fuori e che sempre mi era apparso come l’assemblea più alta, non solo per la definizione istituzionale, ma per chi vi partecipava, da La Pira, a Fabiani, a Lagorio, a tanti altri che andavamo ad ascoltare come eminenti protagonisti della vita pubblica di Firenze. Fu un grande onore per giovani come me, come Michele Ventura, come l’ancor più giovane Giovanni Pallanti, sedere accanto a personalità eminenti come Cesare Luporini, Giorgio Mori, più tardi Alessandro Bonsanti, solo per fare due o tre esempi. Il Consiglio era universalmente riconosciuto come il centro della rappresentazione della democrazia, del confronto dei progetti politici, della qualità delle classi dirigenti. In città importanti come Firenze valeva il principio che l’assemblea elettiva cittadina era il luogo privilegiato di un confronto politico che non si fermava alle questioni locali.
Tanto per essere chiari, in un contesto storico che certamente aveva molto da invidiare a cambiamenti che sarebbero intervenuti con il crollo del sistema sovietico, per altro verso la qualità della vita pubblica era nettamente superiore all’attuale.
Perché quest’affermazione che certamente farà storcere la bocca a molti e non solo a coloro che non hanno, per loro fortuna, l’età per poter fare i confronti di cui scriviamo? Prima di tutto c’era, malgrado le contraddizioni di appartenenza politica internazionale di partiti come il Pci o l’antagonismo della destra estrema, un’adesione condivisa alla democrazia rappresentativa, alla necessità che questa esprimesse i valori e le convinzioni dei diversi partiti ai maggiori livelli possibili.
C’era per tale motivo un ruolo di ricerca del consenso nella società che alla fine si esprimeva proprio nella rappresentanza istituzionale, ma che vi giungeva con l’autonoma iniziativa del partito a cui si riferivano le personalità che l’opinione pubblica maggiormente conosceva. I partiti erano, in un modo o nell’altro, i contenitori di una formazione politica individuale che oggi non esiste più, perché non ci sono più i partiti. Meglio che non ci siano più i partiti della prima repubblica? Per molti aspetti sì, soprattutto per quelli che avevano alle spalle un passato che sarebbe caduto con il Muro di Belino.
Il fatto è che con la loro sparizione, è scomparso qualcosa che è comunque e sempre il sale della vita pubblica in un sistema liberale e democratico: il confronto delle culture politiche. Si dice che le difficoltà di funzionamento di istituzioni come i consigli comunale sia dovuta alla riforma elettorale che ha dato diversa efficienza al potere esecutivo locale, cioè i sindaci, mentre ha reso solo sopravviventi le assemblee elettive, quanto a poteri e gestione degli stessi. È vero in parte, in realtà la rappresentanza politica può svolgere una funzione decisiva anche se le rimangono soprattutto poteri di indirizzo. Bisogna, però, che tale rappresentanza sia in grado di esprimere al meglio la cultura della parte a cui appartiene e che sulla base di tale cultura sia riconoscibile dall’opinione pubblica. È chiaro che sembra difficile che possa avvenire quanto sopra in un contesto in cui nessuno ha più in mente che occorra avere una cultura per fare politica: sennò dove va a finire l’uno vale uno?
Di seguito, dove va il povero rappresentante a formarsi una cultura politica condivisa da un partito, se i partiti sono solo comitati elettorali usa e getta, anche se spesso utili, visto che in Italia sulle elezioni non si fa a miccino, come si dice a Firenze. Non c’è barriera possibile alle idee quando si possono esprimere e le idee non conoscono ostacoli per imporsi all’attenzione dei cittadini, attraverso il confronto nelle istituzioni. Se il sindaco, legittimato da un potere che gli viene direttamente dall’elettore, non viene in Consiglio, è difficile che lo si possa costringere, ma se rischia di rimanere in minoranza per qualità di proposte, di idee, di cultura politica, allora se non verrà al confronto, avrà di che pentirsene. Se, invece, al posto delle idee ci saranno solo pacchetti di preferenze, qualcuno potrà conquistare un posto nella Sala dei Duecento, o altrove, ma senza che in realtà i cittadini se ne accorgano più di tanto. Quando se ne andrà di certo avrà evitato di diventare un «Laudator temporis acti», perché non ci sarà nulla da ricordare né per lui, né per gli altri.