Un lockdown lungo tre anni. Questo è il destino previsto dal governo per i circa 250 mila ospiti delle oltre tremila strutture di lungodegenza per persone non autosufficienti. Nell’Italia che «riapre», chi vive in queste strutture non ha ancora recuperato il diritto alle relazioni sociali perdute a causa della pandemia. Per i familiari visitare i lungodegenti rimane un’impresa. I colloqui sono ancora contingentati, vanno prenotati in anticipo e si limitano spesso a mezz’ora di saluti e poco più. Incontrarsi nelle stanze degli ospiti, per recuperare un po’ di intimità magari riordinando un armadietto o guardandosi negli occhi in silenzio, è pressoché impossibile. Per chi vive in una residenza, però, la relazione sociale non è un optional ma è parte della terapia e dell’assistenza. Cioè di quella funzione per cui le Rsa, quasi tutte private, sono accreditate e finanziate dal Servizio sanitario pubblico. Soldi a cui si aggiungono le rette pagate dalle famiglie e dai Comuni, che oscillano tra i 1500 e i 2500 euro al mese a seconda dei livelli di assistenza richiesti. Senza relazioni, le condizioni di salute degli ospiti in questi anni di pandemia sono peggiorate rapidamente.
«MOLTE STRUTTURE non permettono visite nel weekend, ma solo in fasce orarie impossibili per chi lavora», racconta la romana Claudia Sorrentino, figlia di una anziana non autosufficiente. Insieme ad altri familiari ha dato vita a un coordinamento per difendere i diritti di chi vive in queste residenze. Ne fanno parte una trentina tra comitati locali, associazioni e sindacati. «Per entrare nelle Rsa – spiega – serve ancora il green pass “booster” o un tampone negativo. E a chi non ha potuto fare il richiamo, magari non per sua scelta, i tamponi impongono spesso costi insostenibili». Il governo ha infatti deciso di prolungare l’obbligo di green pass «booster» o «rafforzato» (più tampone) fino alla fine del 2022.
IL PROBLEMA è ben noto agli addetti ai lavori. Il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma ha più volte espresso la sua preoccupazione, e con lui molti garanti regionali. A fine marzo, durante l’ultima visita in Italia, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura ha ispezionato due Rsa lombarde e le sue osservazioni dovrebbero essere pubblicate a breve. Anche Paola Di Giulio, vice-presidente del Consiglio Superiore di Sanità e ordinaria di Scienze infermieristiche all’Università di Torino, difende i diritti degli ospiti e dei loro familiari. «La maggior parte delle Rsa oggi può essere riaperta», dice al manifesto. «Gli ospiti hanno ricevuto quattro dosi di vaccino, il personale almeno tre». Di Giulio ha fatto parte della commissione istituita dal governo per la riforma dell’assistenza agli anziani presieduta da Vincenzo Paglia.
A settembre 2021 la commissione aveva stilato la «Carta per i diritti delle persona anziane e i doveri della comunità». Nel documento si legge che «la persona anziana ha il diritto di avere una vita di relazione attiva» e che «istituzioni e società hanno il dovere di evitare nei confronti delle persone anziane ogni forma di reclusione, ghettizzazione, isolamento che impedisca loro di interagire liberamente con le persone di tutte le fasce di età». Anche i nipotini non vaccinati, dunque.
INVECE LA POLITICA ha fatto poco o nulla. Il sottosegretario alla salute Andrea Costa a marzo ha incontrato le associazioni ma poi non ha mantenuto gli impegni. «Ci aveva promesso un tavolo con i rappresentanti dei residenti e quelli delle regioni da cui dipende l’accreditamento delle Rsa – spiegano i familiari – ma poi non se ne è saputo più nulla».
Il 22 aprile, la Commissione diritti umani del Senato ha approvato una risoluzione che impegna il governo ad «adottare politiche in favore delle persone anziane con approccio innovativo, tenendo conto del loro patrimonio relazionale quale principale veicolo di tutela e di rispetto della dignità».
L’8 MAGGIO il ministero ha firmato un’ordinanza che in teoria allenta le misure di restrizione, ma in realtà ribadisce il divieto di accesso all’interno delle strutture, l’obbligo di distanziamento e di green pass, e non rimuove i limiti alla durata degli incontri. L’ordinanza prevede che la direzione sanitaria della struttura «possa adottare misure precauzionali più restrittive». E questo è il punto più contestato. «La discrezionalità permette alle residenze di stabilire le norme a piacimento riducendo l’accesso dei visitatori», spiega Sorrentino. Affinché le misure siano proporzionate e non servano invece ad allontanare occhi indiscreti dalle residenze, dovrebbero vigilare le Asl. «Ma non lo fanno. Io stessa ho contattato più volte le autorità sanitarie senza alcun risultato».
IL RISULTATO di questa segregazione alla lunga emerge lo stesso: «Le condizioni di salute dei residenti sono regredite a causa delle terapie ridotte all’osso», raccontano i familiari. «Il personale scarseggia, i sanitari non ce la fanno più. A volte non hanno il tempo nemmeno per imboccare tutti coloro che ne hanno bisogno, o per garantire un minimo di mobilità».
OSPITI E LAVORATORI sono dalla stessa parte. Al coordinamento partecipano anche infermieri e operatori socio-sanitari e il 30 maggio saranno in piazza insieme ai familiari in tante manifestazioni cittadine. A Roma, l’appuntamento è al ministero della Salute per chiedere a Roberto Speranza un intervento governativo che limiti il potere sulla libertà individuale di cui godono, e talvolta abusano, le residenze sanitarie.