“Una valutazione sulla Rivoluzione Francese? Troppo presto per dare un giudizio”, così rispondeva Zhou Enlai alla domanda di un giornalista americano durante la storica visita del presidente Nixon in Cina nel 1972. L’abilità di condensare in poche parole concetti difficilmente spiegabili in decine e decine di pagine è da sempre una caratteristica dei grandi personaggi della storia cinese. Zhou Enlai, uno dei padri nobili del partito comunista, eroe della rivoluzione, braccio destro ma allo stesso tempo antitesi di Mao, primo Ministro del Consiglio di Stato della Repubblica Popolare dal 1949 fino alla sua morte, può essere annoverato senza ombra di dubbio in entrambe le categorie: uno straordinario personaggio della storia recente cinese e un abile aforista. Poco male se la celebre frase sia stata in realtà frutto di un fraintendimento (il primo ministro aveva inteso che il giornalista si stesse riferendo al Maggio francese del 1968 e non alla gloriosa rivoluzione di Danton, Marat e Robespierre). La cristallina enigmaticità della frase infatti ‒ contenente in egual misura il respiro millenaristico della cultura cinese e la saggezza confuciana che predilige la mediazione al rischio di una presa di posizione netta e intransigente ‒ , è un chiaro esempio di come il verosimile spesso supera il reale nella capacità di descrivere gli uomini, gli eventi e la storia.
La carriera politica di Zhou Enlai può essere descritta a partire dal lungo e tormentato rapporto con Mao. I due leader rappresentano le facce di una stessa medaglia che è stata la Rivoluzione Cinese. Mao è il capo carismatico, l’eroe che con il suo corpo e la sua voce ha incarnato lo spirito della rivoluzione, l’idolo delle masse che riesce a movimentare milioni di persone con una sola parola, il figlio di contadini che diventa l’uomo più potente di un intero continente. Zhou è il politico navigato, l’uomo che conosce i quadri del partito e sa come manovrarli, il diplomatico che tesse le relazioni internazionali della nascente Repubblica Popolare, l’espressione più autentica dell’apparato in grado di mettere in moto e far funzionare l’enorme macchina statale della Cina. Mao ha un carattere focoso, sa prendere le decisioni, non ha paura di cavalcare la storia e decidere dove condurla, il leader coraggioso che non esita a eliminare tutti gli ostacoli che lo allontano dal suo obiettivo. Zhou ha un carattere pacato, sempre alla ricerca di una mediazione, di un compromesso che smussi le polarità inconciliabili, maniaco dei dettagli, cerca di accomodare le situazioni in modo che l’esito raggiunto sembri il più naturale possibile. Mao e Zhou, il capo e il suo sottoposto, un’incarnazione orientale della celebre figura hegeliana del servo e padrone. Mao ordina e Zhou esegue, Mao indica e Zhou si muove, per quarant’anni questa relazione delicata ha affrontato le sfide più difficili, le crisi che sembravano impossibili da superare. Probabilmente Mao senza il contrappeso di Zhou, che con il suo costante lavoro è riuscito a tenere in piedi il partito anche durante gli anni violentissimi delle lotte fratricide della Rivoluzione Culturale, sarebbe caduto vittima dei suoi stessi fantasmi, di quella ira popolare costruita a tavolino per purgare chi aveva preso troppo potere e rischiava di metterlo in pericolo. D’altra parte Zhou senza lo scudo della salda e carismatica presenza di Mao, sublimata in una cieca e quasi religiosa credenza nell’infallibilità della rivoluzione e nelle decisioni del suo leader, si sarebbe sgretolato di fronte alle contrastanti forze che dilaniano il corpo di chi è chiamato a comandare.
Nonostante entrambi i leader siano consapevoli della necessità della presenza del loro alter ego, il loro rapporto personale non è idilliaco. Mao non si fida fino in fondo della lealtà di Zhou e lo mette alla prova diverse volte nel corso della loro lunga carriera. In realtà le paure di Mao sono infondate, il primo ministro non ha mai tramato oscuramente per prendere il posto del presidente, rispettando un voto fatto in giovinezza di seguire in tutto e per tutto le decisioni del suo capo per il bene della Cina. Le ossessioni di Mao giocano un ruolo non indifferente nella morte di Zhou. Nel 1972 l’equipe medica che segue Zhou gli diagnostica un cancro alla vescica, ma seguendo un ordine di Mao non rivela l’entità del problema al paziente e non procede alle cure che tempestivamente lo avrebbero salvato. La malattia di Zhou si aggrava notevolmente circa due anni dopo e nel gennaio del 1976 lo porta alla morte dopo mesi di ricovero in ospedale. In questo modo Mao riesce a eliminare un suo possibile successore, il più ostico tra quelli fino a ora affrontati, senza dover alzare un dito e senza inimicarsi la nomenclatura del partito, che vedeva nel primo ministro il simbolo della tenuta dell’intero sistema. Mao aveva paura che Zhou, una volta preso il suo posto, avrebbe impresso un nuovo tipo di corso alla politica cinese, concentrando le forze dello stato sulla ripresa economica e il progresso industriale, imprimendo in questo modo una svolta di “destra” alla Rivoluzione Culturale.
La storia però è avvezza a prendersi gioco del destino dei grandi e, nel giro di poco tempo, gli spettri di Mao divengono sempre più reali. Il presidente non resiste che pochi mesi alla morte di Zhou (nel settembre del 1976 viene stroncato da una crisi respiratoria), e nel giro di qualche anno Deng Xiaoping ‒ purgato più volte da Mao ed esponente dell’ala più a destra del partito ‒ riesce a conquistare il potere e a porre le basi per la Cina moderna fortemente industrializzata, che di li a pochi decenni diventerà la fabbrica a basso costo dell’Occidente. Riassumere le numerose vicende di cui si è reso protagonista Zhou nel corso di più di 40 anni di carriera è un’impresa ardua. Il libro ”Zhou Enlai. The Last Perfect Revolutionary”, mai tradotto in italiano, è una dettagliata biografia in cui sono presenti tutti i passaggi più delicati del suo percorso politico. La storia di questo libro è degna di nota. L’autore, Gao Wenqian, fino agli inizi degli anni ’90 era un ricercatore presso l’ufficio centrale per la documentazione del partito comunista cinese. Gao aveva accesso all’archivio ufficiale del partito in cui sono conservati i documenti autentici e i dossier più disparati sulla storia recente cinese. Il suo incarico era di scrivere le biografie dei più grandi leader comunisti, tra cui anche Zhou. Dopo i fatti di piazza Tienanmen però, decide di lasciare Pechino e trasferire illegalmente tutti gli appunti e le fonti necessarie per scrivere il libro in America. Nel 2007 pubblica la sua opera e diventa una delle voci più autorevoli su tutto ciò che riguarda la Cina e grande sostenitore di una riforma democratica dello stato.
Tra le varie imprese che nel corso delle pagine del libro vengono raccontate, una delle più importanti è senza dubbio l’organizzazione della visita a Pechino del presidente Nixon in piena guerra fredda. I rapporti tra Usa e Cina erano congelati dal 1949, dal giorno in cui Mao ha dichiarato la nascita della Repubblica Popolare. Per i successivi 20 anni la Cina è stata l’ancella di Mosca e ha intessuto i propri rapporti internazionali sotto l’ombrello delle relazioni sovietiche. A partire dalla morte di Stalin però, Mao inizia un lento e faticoso allontanamento dal Cremlino. Ai suoi occhi Krushev prima e Breznev poi, hanno tradito lo spirito rivoluzionario di Lenin e Stalin e annacquato i valori del comunismo. Un ulteriore motivo per staccarsi definitivamente dalle dipendenze della diplomazia sovietica è costituito dagli effetti della Rivoluzione Culturale. Le epurazioni, che falciano a tutti i livelli i quadri del partito comunista cinese, colpiscono in larga parte gli uomini di congiunzione tra Mosca e Pechino, rendendo sempre più autonoma la politica cinese. Mao ha paura di una possibile ripercussione sovietica e dà mandato a Zhou di iniziare i contatti con l’amministrazione americana. In questo modo può contare su una forte contropartita nei confronti dell’URSS e districarsi dal ruolo defilato che fino ad allora aveva ricoperto sulla scena internazionale. Con l’atterraggio all’aeroporto di Pechino del volo del presidente americano, la Cina entra ufficialmente nel grande gioco della diplomazia e inizia quel delicatissimo valzer a tre con Usa e Russia da cui ancora oggi dipende l’equilibrio mondiale. L’apporto di Zhou alla riuscita dell’impresa è stato fondamentale. Grazie alle sue abilità di mediatore riesce facilmente a entrare in sintonia con il segretario di Stato americano Henry Kissinger. Entrambi vecchie volpi dell’antica arte della concertazione, non trovano difficoltà a organizzare il viaggio di Nixon e a farlo filare liscio senza nessun tipo di incidente. Washington può ritenersi soddisfatta, ha ristabilito un canale di comunicazione con la Cina e inflitto un duro colpo, in parte mediatico e propagandistico, a Mosca, mentre Pechino ottiene lo status di player politico internazionale e contemporaneamente fa pressione alla Russia.
A distanza di quasi cinquanta anni sembra che il clima diplomatico abbia raggiunto gli stessi apici di tensione, ma con i protagonisti in posizioni leggermente diverse. Ora i due colossi che si sfidano sono proprio la Cina e gli Usa, con la Russia che appare, solo economicamente, più dietro. L’amministrazione Biden ha lanciato una campagna internazionale che mira a destabilizzare i rapporti tra i suoi alleati e i due giganti orientali in un’ottica di rafforzamento della sua leadership. In una situazione del genere occorre leggere ogni tatticismo a partire da una visione tripartita: gli ammiccamenti o le scaramucce ‒ che nei prossimi tempi aumenteranno considerevolmente ‒ tra due degli attori in campo, avranno sempre come scopo anche quello di inviare un messaggio destinato al terzo partecipante di questo ballo potenzialmente micidiale. Nella speranza che le invidie, le gelosie e i rancori di questo ménage à trois diplomatico non sfocino in escalation difficilmente governabili, possiamo solamente augurarci che i suoi protagonisti conservino almeno parte dell’abilità politica dei loro predecessori, di cui Zhou Enlai può essere considerato un esempio straordinario.