Ègrande la virtù del nuotare controcorrente, ma se per una volta la corrente fosse un fluire di acque chiare e fresche e ben ossigenate dall’intelligenza, non sarebbe forse lecito abbandonare l’istinto puramente intellettuale del bastian contrario e sciogliersi tra risate e lacrime, nel modo che già Euripide chiamava Δακρυόεν γελάσαι?

Osservando coloro che cercano da giorni il cavillo per ridimensionare il grande consenso della serie Netflix “Strappare lungo i bordi” del fumettista Michele Rech, in arte Zerocalcare – arrivando persino a improbabili dissertazioni linguistiche su un romanesco ampiamente comprensibile, o a vagheggiare un finto anticapitalismo in salsa verde invidia – viene da riflettere su quanto sia difficile accettare il successo di un contemporaneo, di un giovane, di uno bravo davvero, che mette d’accordo critica e pubblico. E agli irriducibili della critica, verrebbe da rispondere proprio come farebbero Zero e l’amico Secco: stacce.

Stacce, se è stato un fumettista, e non un romanziere o un regista, a narrare meglio di chiunque altro lo spirito del tempo, non di una sola generazione ma di un’epoca, più di Bauman e della sua vita liquida, più di Serra e dei suoi sdraiati, più di Sally Rooney e di Muccino, perché di tutti loro ha insieme la profondità, la leggerezza, l’originalità, la poesia.

Stacce, se non è solo generazionale, ma universale, perché dai quindici anni fino ai cinquanta e oltre, nel mondo di Zerocalcare qualcosa di tuo ce lo trovi. Anche se sei nato negli anni ’70, e fai parte della generazione X, quella che non si fila nessuno, e hai mancato per un soffio l’eterna precarietà, oppure il posto fisso l’avevi trovato ma poi l’hai perduto, e le illusioni del carrierismo e della Milano da bere son durate poco. Oppure se sei un millennial, come Rech, che è nato nell’83, immerso nella tecnologia e nelle incertezze, o un ventenne della generazione Z, pieno di ideali che non sai ancora se tradirai o se ti tradiranno, né sai ancora nulla di cosa diventerai. Ma persino se sei un boomer, l’oggi tanto vituperato boomer, l’inadeguatezza devi averla conosciuta. Anche se allora era diverso, era più facile “strappare lungo i bordi”, perché la società imponeva da subito una lista di obiettivi forse più facili da raggiungere – ma anche più difficili da sfuggire, se non ti appartenevano. E allora, stavamo meglio quando stavamo peggio? No, perché il foglio, una volta strappato, sul bordo oppure fuori non importa, non si riaggiusta, e indietro non si torna.

Stacce, se Zerocalcare sa parlare di inadeguatezza, disagio, malinconia, insensatezza del vivere, persino suicidio, con leggerezza calviniana e immensa grazia. Se piace anche a chi non è di sinistra, perché la politica si affaccia ma non invade, non eccede in ideologismi, non fa perdere l’ironia, e il G8 di Genova, il razzismo, i luoghi comuni della mascolinità sono trattati sul filo dell’interrogarsi e non dell’insegnare la vita. Perché Zero nel suo viaggio è un moderno Giovane Holden, ma più sensibile e meno giudicante, che un po’ vorrebbe essere quello che salva gli altri, ad esempio i ragazzini a cui dà ripetizioni, afferrandoli un attimoprima che cadano nel burronema in fondo è lui quello che ha bisogno di essere salvato, e proprio per questo è profondamente autobiografico ma è anche tutti noi.

Stacce, se argomenti come il libero arbitrio e le conseguenze delle nostre azioni sono trattati con metafore esilaranti e struggenti, come la paura dell’ignoto anche solo nell’ordinare una pizza diversa dal solito o lo scoprirsi come un filo d’erba tra tanti, senza più sulle spalle il peso del mondo. Paragone che a qualcuno non piacerà, ci si vedrà un inno al disimpegno, ma esprime in pieno il sentimento di una generazione, anzi più di una, da sempre incolpata di avere tutto e che alla fine non ha niente, che si sente rinfacciare che qualsiasi lavoro è meglio che lavorare in miniera e accusare di non aver mai vissuto la guerra, da gente che altrettanto non ha mai lavorato in miniera né vissuto la guerra.

Stacce, perché è vero che “è inutile che vivi fuori se muori dentro”, come sta scritto su un muro di Rebibbia, nel primo fotogramma, ed è tra dentro e fuori che si gioca tutto. Dentro, l’introspezione che alle vecchie generazioni era pressoché sconosciuta, e che oggi diventa centrale al punto di inibire l’azione, paralizzare nell’eterna ricerca di sé. Fuori, un mondo che comunque pretende efficienza e velocità. Dentro, una coscienza a forma di Armadillo, a sua volta svaccata e ondivaga, ben lontana dalle certezze saccenti ma ferme del grillo parlante. Fuori, un gruppo di amici che è come una famiglia, ma con cui comunque si fatica a conoscersi a fondo e a sostenersi. E vicino a Zero i due estremi. Sarah, vera coscienza razionale, Logos, e Secco, che vive l’istante nel mezzo del Caos e si sostenta di poker on line in una quotidianità all’apparenza semplice, tra lo stoico e l’epicureo del tormentone “s’annamo a pija er gelato”.

Stacce, che ha creato una trama perfetta, dove ogni filo si ricollega, e appena una scena sembra banale o superflua, ecco che arriva una battuta fulminante o un ribaltamento di punto di vista a rimetterla al posto giusto. Ed è tale la ricchezza di citazioni culturali e pop, nascoste tra gli oggetti, i cartelli sui muri, i menù, gli schermi televisivi, che bisognerebbe passare settimane a vederla e rivederla, la serie, lavorando di fermo immagine per trovarli tutti, ma se poi diventa n’accollo (perché durante e dopo le puntate, vi accorgerete di pensare ormai in romanesco) allora non importa, anche limitandosi a una visione d’insieme non si perde la magia.

Stacce, soprattutto, caro intellettuale, se l’uso di termini come genio e capolavoro ti infastidiscono, e li trovi eccessivi, e magari lo sono, anzi è probabile che lo siano, e pure se lo trovi sopravvalutato, è probabile che lo sia, perché sopravvalutare è tipico dell’amore, e proprio come nella persona amata i difetti, se pure ci sono, diventano irrilevanti, ogni artista che sia arrivato alle grandi folle è stato in qualche modo sopravvalutato. Ma non per sua mancanza o per incompetenza del pubblico. Piuttosto perché ha saputo a tal punto entrare nell’anima della gente che la sua opera non è stata più giudicata nei termini del gusto e nemmeno della bellezza, ma dell’amore.

 “Noi andavamo lenti perché pensavamo che la vita funzionasse così. Che bastava strappare lungo i bordi, pian piano seguire la linea tratteggiata di ciò a cui eravamo destinati. E tutto avrebbe preso la forma che doveva avere. Perché c’avevamo diciassette anni e tutto il tempo del mondo”.