Zaki in aula dentro una gabbia «Io non sono un criminale»

 

Solo 5 minuti di udienza per lo studente egiziano in carcere da 2 anni, poi nuovo rinvio

Marta Serafini

«Ho solo esercitato il mio diritto di parola, non sono criminale». Cinque minuti di udienza, in manette, chiuso in una gabbia insieme ad altri prigionieri. Poi l’ennesima doccia fredda. Patrick Zaki, 30 anni, ricercatore e studente dell’Università di Bologna, resta in carcere.

Non sono bastati quei 19 mesi trascorsi per lo più nella prigione di massima sicurezza di Tora. Ora i magistrati della corte di Mansoura, la sua città natale, che lo accusano di «diffusione di notizie false fuori e dentro il Paese», nella prima udienza che lo vede alla sbarra dopo il carcere preventivo, rimandano la decisione al 28 settembre. La colpa è aver scritto parole come queste «Non passa mese senza tragici episodi ai danni dei copti (i cristiani d’Egitto, minoranza cui Zaki e la sua famiglia appartengono, ndr), dai tentativi di espatrio nell’Alto Egitto, ai rapimenti, alla chiusura di chiese o agli attentati dinamitardi e simili». Un articolo pubblicato nel 2019 sul sito Daraj e per il quale Patrick potrebbe rimanere in carcere cinque anni.

Barba, occhiali e codino, Patrick arriva in tribunale vestito di bianco, colore scelto da chi è in attesa di giudizio. Parla con impeto davanti a un giudice lamentando di essere stato detenuto oltre il periodo legalmente ammesso per i reati minori di cui è accusato ora. La sua legale chiede l’accesso al suo dossier per avere certezza che le accuse di istigazione al terrorismo siano effettivamente decadute. Ma, ancora una volta, i magistrati di Al Sisi giocano al gatto con il topo. E lo fanno portare via senza che possa scambiare una parola con i parenti o con i suoi avvocati.

In aula, oltre al padre George e la sorella Marise, c’è anche mamma Hala che si angoscia. «Patrick ci è sembrato in buona salute, ma dopo quasi due anni che non lo vedevo l’ho trovato diverso: non voglio dire invecchiato ma di certo il carcere lo ha cambiato. Sembra insofferente e dietro un certo autocontrollo si nota che ha perso quel suo essere sempre allegro, che invece era un tratto della sua personalità», spiega un’attivista di Egyptian Initiative for Personal Rights (Eipr), l’ong con cui Zaki collaborava.

In aula entrano anche due diplomatici italiani e altre due colleghe delle ambasciate di Germania e Canada. Poi dopo un’ora di camera la decisione: udienza rimandata al 28 settembre. E Patrick ritorna a Tora. Il sottosegretario Benedetto Della Vedova parla del caso con la relatrice Speciale dell’Onu sulla promozione e protezione del diritto alla libertà di opinione, Irene Khan. Ma quella cittadinanza italiana che il Parlamento ha deliberato per Patrick ancora non arriva. «In questo momento serve la massima attenzione da parte di tutte le diplomazie, dell’Europa, dell’Italia, perché è un passaggio molto delicato», commenta il rettore dell’Università di Bologna Francesco Ubertini. «È un’immagine terrificante, perché le manette ai polsi di un uomo innocente, provato da 19 mesi di detenzione preventiva, fanno impressione», fa eco Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International, da tempo impegnato nella campagna per la sua liberazione. «Zaki a processo è anche uno schiaffo (l’ennesimo) all’Italia. Stupisce come il governo ami farsi schiaffeggiare. Alcuni interessi, innanzitutto quello legato al traffico d’armi, sono più forti di tante chiacchiere», twitta l’europarlamentare Pd Pierfrancesco Majorino.

Intanto a Bologna tutto è pronto per la cerimonia di laurea del master Gemma frequentato da Zaki prima dell’arresto e che gli riconoscerà domani il diploma. Ma Patrick, no, lui non ci potrà essere a festeggiare coi compagni.