Chiusi all’interno di un minuscolo box

di Matteo Pollone

Un uomo si aggira per le strade deserte di una cittadina. È solo e non ricorda come si chiama né come sia finito lì. Entra nei negozi, si serve da bere e da mangiare. Entra nella stazione di polizia, in una sala cinematografica, si siede su di una panchina di fronte al liceo locale. Arriva la sera, e ancora nessuno si è fatto vivo. Ha una crisi, chiede aiuto, urla. Ma è tutto un sogno, anzi un’allucinazione. L’uomo si è sottoposto a un test di isolamento estremo in vista di una missione spaziale, e dopo due settimane chiuso all’interno di un minuscolo box, privo di contatti di ogni genere con altri esseri umani, ha subito un crollo nervoso. Nonostante non tratti direttamente di una pandemia, il primo episodio di Ai confini della realtà (The Twilight Zone), la celebre serie americana creata da Rod Serling per la Cbs nel 1959, sembra fotografare una realtà oggi sotto gli occhi di tutti: le città deserte da un lato e lo stress della reclusione dall’altro sono ingredienti fissi della nostra esperienza quotidiana.

Non a caso, tra i vari meme che affollano i social, uno frequentemente condiviso mostra un ragazzo con un cartello su cui è scritto “questo episodio di Black Mirror sta durando anche troppo”. Black Mirror, creata nel 2011 da Charlie Brooker per il canale britannico Channel 4, è una delle tante serie che si possono considerare figlie di Twilight Zone. Tra i collaboratori ricorrenti di Serling alla serie – nonché sceneggiatore di alcuni degli episodi più citati e amati – c’è Richard Matheson, l’autore di Io sono leggenda (I Am Legend, 1954), un testo germinale sul tema del contagio: gli effetti del batterio ipotizzato da Matheson trasformano gli uomini in esseri a metà tra il vampiro e lo zombie, e questo ha fatto sì che, al di là dei tre adattamenti, siano in realtà molto più numerosi, a partire da La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968) di George Romero, i film in debito con il romanzo. Spesso si tratta di film che oscillano, come il libro, tra la fantascienza e l’horror. Non a caso, L’ultimo uomo della Terra (The Last Man on Earth, di Sidney Salkow e Ubaldo Ragona, 1964), la prima – e più riuscita – trasposizione “ufficiale”, vede come protagonista l’attore Vincent Price, volto ricorrente del cinema dell’orrore degli anni sessanta e settanta e in particolare delle opere che Roger Corman trae, tra il 1960 e il 1964, dai racconti di Edgar Allan Poe. Tra questi, La maschera della morte rossa (The Masque of the Red Death), uscito lo stesso anno di The Last Man on Earth, racconta proprio della diffusione della peste in Europa nel Medioevo. Un altro “ultimo uomo sulla terra” è invece Yorick Brown, il protagonista della serie a fumetti Y: The Last Man di Brian K. Vaughan e Pia Guerra, pubblicata dall’etichetta DC Vertigo dal 2002 al 2008. La differenza con il Robert Morgan di Io sono leggenda consiste però nel fatto che Yorick non è l’ultimo essere vivente della terra, bensì l’ultimo maschio, sopravvissuto a una malattia che ha ucciso tutti i mammiferi dotati del cromosoma Y. Ironia della sorte, le riprese dell’attesissima trasposizione televisiva, in cantiere almeno da cinque anni per il canale americano FX, avrebbero dovuto prendere il via nel mese di aprile 2020, e sono state bloccate a causa della diffusione del Covid-19.

La fantascienza, dunque, ha raccontato e continua a raccontare gli effetti di ipotetiche pandemie, nonostante alcuni tentativi di sovvertire o parodiare i topoi del genere (come avviene nella serie comedy di Will Forte The Last Man on Earth, trasmessa originariamente su Fox tra il 2015 e il 2018). L’esercito delle 12 scimmie (12 Monkeys, 1995), remake del cortometraggio di Chris Marker intitolato La jetée (1962), vede Bruce Willis attraversare avanti e indietro il tempo, nel tentativo di comprendere le cause di diffusione di un virus che ha sterminato quasi tutta l’umanità. Come questo film, molti altri sono ambientati in un vicino futuro e si strutturano sulla base delle convenzioni del filone postapocalittico: poco importa che la causa della scomparsa di milioni di persone sia un olocausto nucleare o un contagio inaspettato. Il risultato, grossomodo, è lo stesso: lo vediamo in 28 giorni dopo (28 Days Later di Danny Boyle, 2002) dove, come in 12 Monkeys, è l’iniziativa dell’uomo a liberare un virus potentissimo fino a quel momento chiuso in laboratorio.

Il modello di riferimento di molti di questi film – e di tanta altra fiction sul tema – sembra essere, oltre al già citato Io sono leggenda, anche L’ombra dello scorpione (The Stand, 1978), il romanzo di Stephen King più volte indicato in questi giorni come “profetico” in quanto racconta della propagazione di un virus letale dai sintomi del tutto simili a quelli dell’influenza. Anche The Stand, come quasi tutta la produzione di King, è stato presto opzionato per il grande schermo, ma la versione cinematografica, pianificata da King insieme a George Romero (che ha diretto nel 1973 un film dal tema simile, La città verrà distrutta all’albaThe Crazies), non è mai andata oltre la fase di sceneggiatura. Esiste invece una miniserie televisiva, girata da Mick Garris nel 1994 per la Abc, che in quattro episodi tenta di condensare le oltre ottocento pagine del libro. In molti di questi racconti, concentrati sulla descrizione degli effetti della malattia e sul tema della sopravvivenza, individuare e descrivere l’origine del contagio è del tutto pretestuoso. In Andromeda (The Andromeda Strain di Robert Wise, 1971, dal romanzo omonimo di Michael Crichton), ad esempio, la causa è un microrganismo extraterrestre; in Il demone sotto la pelle (Shivers di David Cronenberg, 1975), è il risultato degli esperimenti di uno scienziato.

Diverso è invece l’approccio dei film e delle serie che intendono trattare il fenomeno del contagio in chiave più realistica e verosimile. Vi sono sempre state, nella storia del cinema, opere che rielaborano in chiave di fiction reali pandemie o focolai locali: da La città del terrore (The Killer That Stalked New York, Earl McEvoy, 1950) curioso noir che si ispira all’epidemia di vaiolo che colpì New York nel 1947, al più celebre Virus letale (Outbreak di Wolfgang Petersen, 1995), il cui virus Motaba è in realtà l’Ebola, che proprio in quel periodo stava mietendo numerose vittime nell’Africa centrale. Più simili a ciò che il mondo sta vivendo in questo momento sono però le storie raccontate da una serie televisiva e da un film realizzati a venticinque anni di distanza ma incredibilmente profetici: I sopravvissuti (Survivors), serie britannica andata in onda sulla BBC in tre stagioni tra il 1975 e il 1977, e Contagion, il lungometraggio di Steven Soderbergh distribuito nel 2011. Survivors, ideata da Terry Nation – uno dei più importanti autori televisivi britannici – è ancora vicina al genere fantascientifico, come è lecito aspettarsi da uno scrittore che ha legato il suo nome a serie come Doctor Who (per cui crea i Dalek, la razza aliena che ancora oggi è la principale antagonista della saga) o la space opera Blake’s 7. Eppure, l’episodio pilota, in cui si racconta il diffondersi di una misteriosa malattia proveniente dalla Cina e l’iniziale sottovalutazione del problema da parte delle autorità britanniche, è, visto oggi, ancora più inquietante ed efficace.

Contagion, invece, dipinge uno scenario del tutto verosimile nella descrizione della diffusione di un virus sconosciuto, altamente contagioso e letale che non solo semina morte, ma finisce per generare ondate di panico e violenza in tutto il mondo. Utilizzando un impianto corale (non dissimile da quello di Traffic, il film del 2000 dedicato alla filiera della droga), Soderbergh mostra il diffondersi del virus principalmente attraverso il punto di vista del marito della prima vittima, di uno dei responsabili del Centers for Disease Control and Prevention (la principale organizzazione di controllo e ricerca del sistema sanitario americano), di una funzionaria dell’Organizzazione mondiale della sanità, di un blogger complottista e di altri personaggi a questi legati. Al di là della verosimiglianza con cui l’escalation è descritta e dell’asciuttezza con cui è raccontata (il film non si sofferma quasi mai sulla vita privata dei suoi protagonisti, ma li gestisce come pedine funzionali a una narrazione che ha come interesse primario la rappresentazione della risposta di un paese di fronte a una circostanza eccezionale), ancora più importante in Contagion è il voler lasciare fuori campo, fino alla fine, la causa reale del diffondersi del virus. Si racconta che questo dovrebbe venire dai pipistrelli (dettaglio ancora più inquietante, dato quello che stiamo vivendo) e dai maiali, ma il punto d’origine non viene identificato. Il racconto, che inizia dal giorno 2 dell’epidemia, con i colpi di tosse del paziente zero interpretato da Gwyneth Paltrow, torna solo alla fine, a crisi risolta, al giorno 1. Un bulldozer abbatte degli alberi da qualche parte nei dintorni di Macao, distruggendo l’habitat di alcuni pipistrelli. Questi, spostandosi alla ricerca di nuove zone in cui nidificare, finiscono in un allevamento di maiali. Un pezzo di banana caduto dalla bocca del pipistrello finisce per essere mangiato da un cucciolo di maiale, che viene poi preso, ucciso e cucinato nel ristorante di Macao dove Gwyneth Paltrow lo mangia. Ponendo il racconto delle cause alla fine del film, Soderbergh dà a esso particolare importanza: ribadisce che non si tratta, questa volta, di ecoterrorismo o di frammenti di meteorite, come nei molti film precedenti. Si tratta, come stiamo purtroppo sperimentando, di un effetto dovuto all’intervento, sempre più invasivo e scriteriato, dell’uomo sull’ambiente. Per questo, c’è da sperare che il film non sia solo profetico, ma anche di monito.

matteo.pollone@unito.it

M. Pollone insegna storia delle teoriche del cinema all’Università di Genova