Vicenza , musa letteraria del ’900.

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di Gian Antonio Stella

«Non sono tanti negli orti i pomi e i peri / quanti a Vicenza i conti e i cavalieri», recitava un antico adagio del ’400. (…) Anche gli scrittori però sono stati abbondanti, a Vicenza. Da Luigi da Porto che nel Cinquecento scrisse su Giulietta e Romeo la novella Historia novellamente ritrovata di due nobili amanti che avrebbe ispirato Shakespeare, ad Antonio Fogazzaro del Piccolo mondo antico , dal poeta Giacomo Zanella («Sul chiuso quaderno / Di vati famosi, / Dal musco materno / Lontana riposi, / Riposi marmorea, / Dell’onde già figlia, / Ritorta conchiglia») a Virgilio Scapin, il mitico libraio di Contra’ Do’ Rode che mischiava la scrittura e il baccalà, i calici di torcolato e i cammei preziosi nei film di Pietro Germi o Ettore Scola, la città berica e la sua provincia traboccano di figure che hanno segnato la letteratura italiana. (…)
Sostiene Goffredo Parise, in un articolo scritto nel 1976 sul Corriere per ricordare Guido Piovene due anni dopo la morte, che è la città stessa la Musa ispiratrice. Il fotografo Oliviero Toscani, a vederla, restò folgorato. E sempre in quel 1976 («senza mai dormire una notte in albergo perché c’era sempre una gentile signorina o una signora col marito in trasferta», ammicca) ne fece nel libro Vicenza Vicenza , un ritratto memorabile.
Immagini di panni stesi e abiti da messa, di giovani vespisti e vecchie sezioni socialiste intitolate Matteotti, di statue dalle lunghe ombre e sipari di colonne, di gentil¬uomini col foularino e bimbi sulle giostre e madonnine e salici piangenti. (…) Chiudeva l’orologio della Torre Bissara, con un uomo appeso nel vuoto ad aggiustare le lancette.
Il tempo che pareva essersi fermato. Mentre tutto intorno, in quella che era stata la campagna, quello stesso tempo aveva improvvisamente accelerato proprio come aveva scritto Alberto Cavallari sul Corriere nel febbraio 1964 descrivendo «miriadi di fabbriche e fabbrichette, meglio ancora un pullulare di micro industrie. Sono cubi tra le vigne. Sono luccicanti parallelepipedi sotto i gelsi. Qui si croma, là si vernicia, laggiù si tomarano scarpe». Insomma, per dirla con Fernando Bandini, per decenni punto di riferimento dell’intellighenzia di sinistra, un mondo dove si mischiavano passato e futuro, campiello e officina: «Bambini scagliano frecce / di sambuco ai passanti / Riccioli d’acciaio si divincolano / nervosamente dalle fresatrici». (…)
«Destino volle che Piovene nascesse a Vicenza e diventasse scrittore. Uguale destino capitò a me», scriveva Parise in quell’articolo citato: «Per entrambi questa strana e ibernata città è servita da sfondo a più di un libro e per entrambi ha costituito motivo di astrazioni da dover poi mettere a confronto con la realtà italiana reale e non astratta. Dico “servita da sfondo” perché Vicenza non è, né fu mai città composita, fatta cioè di uno sfondo ma anche di primi piani, di persone, di umanità, di cultura, bensì, priva come fu ed è di una società, è sempre stata ed è comunque, da ogni angolo la si guardi, uno sfondo e nulla più. Il perché è presto detto: è una città fatta come un teatro, anzi è un teatro, appunto con meravigliosi fondali, ricchissima di scenografie intercambiabili, tutte vere, tutte di pietra e mattone e cieli veri, costruita e comunque modellata, personalizzata da un solo scenografo-autore: Andrea Palladio. Egli fu il vero fondatore di Vicenza, oggetto disposto nella pianura veneta “per bellezza” come si direbbe di un grande oggetto decorativo, ed egli fu ed ancor oggi è il suo unico il solo abitante. Il resto non c’è, allo stesso modo di un palcoscenico dove, una volta aperto il sipario, tutta l’attenzione dello spettatore è attirata dalla scenografia e dall’atmosfera che emana dalla scenografia».
E sono ancora questa scenografia, queste atmosfere, queste note di sottofondo, che avvolgono La città delle parole. Scritture nel Novecento vicentino di Paolo Lanaro. Dove l’autore ripercorre l’ultimo secolo di storia, vicentina e italiana, partendo dal soggiorno di Friedrich Nietzsche all’hotel Tre Garofani di Recoaro, semplice e modesto e a buon mercato, per chiudere con Fernando Bandini, che se ne andò la mattina di Natale del 2013 dopo avere lasciato poesie bellissime dedicate spesso alla sua urbe. (…)
E pagina su pagina ritroviamo Alberto Savinio, il fratello di De Chirico, che soffriva fin da bambino di allucinazioni e sognava «fanciulle-galline con cresta e bargigli» e inseguiva «il fantasma di Catrafossi, simile a un’immagine di vetro filato». E Silvio Negro, il grande vaticanista che anche a Roma cercava nel cielo Venere, «l’antica “stella boara” che destava i contadini e segnava l’ora dei primi lavori» nella natia valle del Chiampo. (…) E Antonio Barolini che anche a New York, «camminando sulle sponde dell’Hudson, ricordava i suoi fiumi», il Retrone e il Bacchiglione. E Neri Pozza, che «riproduceva nel colore, nel tipo di carta, nei caratteri, le perfette bilanciature dei versi di Montale».
E poi Gigi Ghirotti, che a un certo punto decise di raccontare il cancro che l’avrebbe ucciso: «Da un anno mi insegue un odore di etere, di alcool, di antibiotici, di lisoformio e questo cocktail olfattivo mi pizzica le narici, mi inzuppa le ossa, mi si è attaccato alla pelle». E Gigi Meneghello, che per spiegare la forza del dialetto citava l’oseléto perché «l’uccellino, con tutto il suo lustro, ha l’occhietto un po’ vitreo di un aggeggino di smalto e d’oro mentre l’oseléto che annuncia la primavera ha una qualità che all’altro manca: è vivo».
E Mario Rigoni Stern, che su tutte le creature amava il gallo cedrone che secondo i vecchi raggiungeva «ogni mille anni» un altissimo monolito nella foresta «dove andava a ripulirsi il becco».
E via via che scorri le pagine di Lanaro, ti tornano in mente le parole di Parise su questo magnifico sfondo: «Lo spettatore non ricorda il titolo dell’opera, né la trama, né se questa è un’opera lirica o una tragedia o una commedia in prosa. (…) Lo spettatore (o visitatore) ricorda soltanto ed esclusivamente e per sempre la scenografia e l’atmosfera emanata dalla scenografia, nel silenzio più assoluto, un silenzio di neve».
La neve amatissima da Bandini, da Meneghello, da Rigoni Stern che raccontava come a volte, «dopo ore e ore di cammino» nelle battute di caccia coi piedi affondati nella brüskalan, la prima neve d’autunno, «si scaricavano un paio di colpi in aria in onore di francolini e forcelli e si tornava a casa esausti, col carniere vuoto».