Via della Seta, la nuova sindrome cinese.

India, Pakistan, Sri Lanka, Indonesia: si costruiscono porti, depositi, svincoli, il 90% affidati a imprese della Cina. Ma per le opere accessorie il governo di Xi Jinping elargisce cospicui prestiti a tassi però insostenibili. E il fmi fa scattare l’allarme
PECHINO. Un progetto che “si contrappone alla liberalizzazione del commercio”. E che “fa pendere la bilancia a favore delle società cinesi”. L’opinione sulla nuova Via della seta dei 27 ambasciatori europei a Pechino doveva restare riservata. Lo scoop del quotidiano tedesco Handelsblatt, un paio di settimane fa, l’ha resa pubblica. Ma in fondo era un segreto di Pulcinella: Belt and Road Initiative (Bri), il piano di sviluppo infrastrutturale planetario lanciato nel 2013 da Xi Jinping, perimetro e valore volutamente nebulosi attorno ai mille miliardi di dollari, incontra sempre più resistenze, non solo tra i governi dell’Unione. Dovrebbe tracciare due grandi corridoi commerciali tra Cina e Europa, uno a terra attraverso l’Asia centrale e uno in mare via Oceano Indiano, fino al Mediterraneo, seminando lungo la via investimenti e infrastrutture, porti, strade, ferrovie, energia. Insieme ai cantieri crescono i dubbi. Al di là delle difficoltà tecniche, fisiologiche, lungo la Via della seta il Dragone accumula crediti, che secondo il Fmi minacciano di strozzare i Paesi debitori. Mentre i suoi interessi, politici e economici, viaggiano su una corsia preferenziale. Non proprio il win-win promesso a mezzo mondo. Ma una vittoria sempre più difficile per Xi e per la sua diplomazia delle infrastrutture, che negli auspici dovrebbe consacrare la Cina nuovo campione della globalizzazione.

Il corridoio riluttante
Nessun Paese come il Pakistan mostra questo contraccolpo. Uno dei corridoi più importanti di Bri vuole congiungere il porto di Gwadar sull’Oceano Indiano al confine occidentale della Cina, permettendo alle merci (e agli idrocarburi) di bypassare la strettoia navale di Malacca. A Islamabad, Xi ha promesso 60 miliardi di dollari di investimenti, ma mentre tra i cantieri di Gwadar, blindati da personale cinese, i lavori avanzano, quelli nell’entroterra balbettano. Un po’ le resistenze dell’India, storico rivale del Pakistan, per un’autostrada progettata attraverso i territori contesi del Kashmir. Un po’ i ripensamenti dello stesso governo di Islamabad di fronte ai contratti: più che investimenti, i soldi che arrivano dalla Cina sono prestiti delle sue banche di Stato, a tassi di mercato. E il 90% dei lavori, stima un think-tank americano, è affidato alle aziende del Dragone. Così a novembre il governo ha stracciato il progetto della diga Diamer-Bhasha, 13 miliardi di dollari, perché “contro gli interessi nazionali”. Finito nella lista delle infrastrutture di Bri cestinate, 40 miliardi di dollari tra tutti i Paesi coinvolti.

Sviluppo a debito
A parole Pechino ammalia, con il suo approccio allo sviluppo che non mette bocca sugli affari interni dei partner. In realtà, scrive Tim Murray di J Capital Research, “sta creando dipendenza finanziaria per supportare i propri indirizzi strategici”. Tom Miller di Gavekal Dragonomics va oltre, ipotizzando il rischio di “Stati vassallo”. Tipico il caso di Sri Lanka, isola a un tiro di schioppo dalla costa dell’India, che prestito dopo prestito deve a Pechino 8 miliardi di dollari, il 10% del suo Pil. Per strappare uno sconto di un miliardino, a dicembre il governo ha concesso per 99 anni a China Merchants Port Holdings i moli di Hambantota, tra violente proteste dei cittadini. Una perla in più nella collana di scali che la Cina sta collezionando fino all’Africa e che molti (India in primis) temono possano un giorno diventare approdi militari. Ma i soldi sono soldi, così, sostiene Miller, “molti governi sono ben disposti ad accettare i prestiti cinesi, anche a rischio di diventare economicamente dipendenti”: l’Asia si sta riempiendo di bandierine rosse. Avere così tanti vassalli attaccati alle tasche potrebbe però destabilizzare la stessa Pechino, poco allenata al ruolo del grande creditore. La numero uno del Fmi, Christine Lagarde, l’ha messa in guardia sull’eccesso di debito. Secondo uno studio del Center for Global Development tra i quasi 70 Paesi “beneficiari” di Bri almeno otto sono a “alto rischio”, tra cui Pakistan, Laos, Maldive, Mongolia e Montenegro.

L’Europa divisa
Della Via della seta l’Europa è l’altro capo. E anche lì la Cina sta adottando la stessa strategia, “divide et impera”, facendo leva sui Paesi più bisognosi di investimenti. L’acquisto del Pireo di Atene, approdo della direttrice marittima, è l’esempio lampante. L’Ungheria l’altro grande alleato, con la ferrovia che dovrebbe collegarla alla Serbia affidata a China Railway Corporation. A questi Paesi, periferici o euroscettici, accogliere Pechino serve anche ad alzare la posta con Bruxelles: “Se la Ue non ci dà capitali, sappiamo dove prenderli”, ha detto Orban. E non a caso l’ambasciatore ungherese è il solo dei 27 a non aver firmato il famoso documento critico rivelato da Handelsblatt. Quello studio è la conferma che in Europa i timori per la “unidirezionalità” di Bri, capitali cinesi, merci cinesi, aziende cinesi, stanno crescendo. Bruxelles ha bloccato la ferrovia tra Belgrado e Budapest, contestando l’opacità della gara. Sta indagando su una maxi evasione Iva sulle merci cinesi importate dal Pireo. E a livello più alto, con i ben noti limiti del processo decisionale comunitario, prova a impacchettare un progetto parallelo di investimenti infrastrutturali. “A livello di “marketing” la Bri sta avendo successo – dice Lucrezia Poggetti, ricercatrice del Merics di Berlino – le imprese tedesche (e non solo, ndr) vedono nell’iniziativa delle opportunità di business. Eppure a livello politico la narrativa del mutuo beneficio non sta vincendo, credo sarà difficile per Pechino riconquistare la fiducia dei Paesi coinvolti”. Al forum bilaterale previsto per luglio l’Europa chiederà di ristabilire un terreno di gioco equilibrato. O saranno scintille. Certo di fronte a un piano del genere (“Il più grande progetto globale pacifico dopo il Piano Marshall”, sintetizza Romano Prodi) c’è anche il rischio di esagerare la disillusione. Magari a ritmo blando, con meno di 100 miliardi di progetti davvero finanziati, eppur Belt and Road si muove. E vista la dedizione di Xi promette di farlo per anni, in un momento cui l’Occidente ha chiuso i rubinetti degli investimenti, spianando la strada a Pechino.

L’Italia al palo
Anche per questo l’Italia ha speso parecchio capitale politico per saltare a bordo, non ultimo un viaggio del premier Gentiloni in Cina lo scorso maggio. Finora però ha raccolto poco. Milano si è candidata come uno dei punti di arrivo del corridoio ferroviario terrestre, che rispetto alla nave promette di tagliare i tempi di trasporto da e per il Dragone. Ma dopo la partenza del primo treno verso Oriente lo scorso anno, un secondo è fermo da tempo senza merce. “La via terrestre è più costosa e mancano le garanzie su contratti e assicurazioni”, dice Alessia Amighini, a capo dell’Asia Center dell’Ispi. “Faticano a riempirsi anche i convogli dalla Cina, nonostante i sussidi alle aziende: lo definirei un fallimento”. Quanto alla via marittima verso il Mediterraneo, il primo approdo per i cinesi è il “loro” Pireo. La nostra diplomazia è convinta che restino spazi aperti per gli scali italiani dell’Alto Tirreno e dell’Alto Adriatico, canali verso il Centro Europa, di recente visitati più volte da delegazioni cinesi. “Ma sono tutti piccoli – dice Amighini – spesso in concorrenza tra loro e senza un progetto complessivo, politico, alle spalle”. La nuova Via della seta, con le sue luci e le sue ombre, al momento non passa dall’Italia.