Mostriamo dunque il Partenone e l’automobile perché si comprenda che si tratta, in campi differenti, di due prodotti di selezione, l’uno realizzato compiutamente, l’altro in una prospettiva di progresso. Allora! Allora restano da confrontare le nostre case e i nostri palazzi con le automobili. È qui che i conti non tornano. È qui che non abbiamo i nostri Partenoni.
Le Corubsier
Partenone ed automobile. Partiamo da queste due parole che meglio esprimono e riassumono l’opera con la quale Le Corbusier ha dato inizio alla rivoluzione che in architettura ha formato e condizionato il movimento moderno. Da un lato il Partenone, opera d’arte nobilissima, esito del processo di selezione del tempio greco, organizzato in tutti i suoi elementi. Tempio inteso non soltanto come fatto architettonico, ma come opera d’arte che non rappresenta ma presenta, ovvero ciò che secondo Heiddeger è in grado di svelare la verità. Dall’altro lato la macchina, simbolo di velocità e progresso, oggetto dalla funzione semplice e dai fini complessi che ha imposto alla grande industria la necessità della standardizzazione. L’accostamento e il confronto tra questi due elementi, apparentemente discordanti ma legati da una continua ricerca dell’essenziale, basato sui concetti di proporzione e misura, ha permesso a Le Corbusier di rivoluzionare il modo di concepire l’architettura. Un’architettura in grado di raccogliere l’eredità della rivoluzione industriale che aveva capovolto il rapporto uomo-natura, subordinando quest’ultima all’uomo. La produzione tecnica non viene più intesa soltanto come un pro-durre, ma diviene un con-durre la natura a disporsi in nuove relazioni in nuovi contesti. Umberto Galimberti riguardo questo capovolgimento scrive:
Appare un altro composto che la natura prima dell’intervento tecnico, non lasciava apparire, ma custodiva nella sua latenza. Il composto verrà utilizzato, ma l’essenza della pro-duzione tecnica non è nella sua strumentalità, nell’utilizzazione del prodotto, ma nella con-duzione di qualcosa dalla latenza alla non latenza, nella sua pro-vocazione, che chiama il nascosto a dispiegarsi in quell’orizzonte dell’apparire che il pensiero greco antico chiamava alétheia (verità).
U. Galimberti, Psiche e téchne: l’uomo nell’età della tecnica
L’architettura inizia così a servirsi di questa nuova produzione tecnica, incarnata nell’opera di Le Corbusier soprattutto dal calcestruzzo armato, che permette di realizzare i ben noti cinque punti (pilotis, tetto giardino, pianta libera, facciata libera e finestra a nastro) alla base del nuovo modo di abitare e costruire lo spazio. Se, come Heidegger sostiene, l’essenza della tecnica non è di natura tecnica ma resta iscritta nella verità come svelamento, allora l’architettura è la cosa che ci permette lo svelamento della verità stessa, poiché in grado di racchiudere a sé l’opera d’arte che determina una presenza, resa possibile soltanto dall’essenza della tecnica. Per poter essere svelatrice di verità, l’architettura deve sempre fondarsi sulla dimensione umana e i propri bisogni, che possono essere raggiunti grazie alla pro-duzione tecnica. Ne è un esempio l’Unite d’habitatiòn a Marsiglia progettata da Le Corbusier, dove la tecnica, non essendo neutra, cambia il nostro modo di abitare. Tecnica intesa sempre come strumento grazie al quale si è in grado di soddisfare i bisogni umani, che rimangono sempre gli stessi dell’uomo pre-tecnologico. Si crea così una dimensione poetica, in cui l’uomo rimane il soggetto del nuovo modo di abitare-costruire lo spazio.
Agli individui dotati di viva immaginazione, la protesta, l’ironia e gli stimoli superficiali non sono necessari. Ciò dimostra che bisogna ridare ai giovani d’oggi la dimensione poetica, ossia la capacità di riaprirsi all’incommensurabile. Questo implica il ritorno alle cose stesse, che è anche l’unico modo per vincere la micidiale astrazione del presente.
C. N. Schulz, Il mondo dell’architettura
Poetica che necessita di essere legata all’esistenza delle cose, ai suoi luoghi e alle sue radici, poiché soltanto se intendiamo l’architettura, ogni singola architettura, come unicum è possibile cogliere una maggiore comprensione del mondo, poiché in grado di mettere in relazione l’essenza del mondo, costituita da terra e cielo, divinità e uomini mortali. L’uomo abita proprio tra questi elementi, e ne definisce lo spazio esistenziale che viene ad assumere una forma topologica che permette all’uomo di abitare poeticamente e di intrattenere relazioni. Il genius loci, l’anima del luogo, permette all’architettura non solo di affermarsi come unicum, ma di concretizzare lo spazio esistenziale definito dall’uomo all’interno della quadratura stessa. Il luogo circoscrive i limiti entro i quali l’architettura assume una struttura fisica, definisce ciò che sta dentro da ciò che sta fuori, nella quale è possibile cogliere come cose stesse interagiscano e riflettano tra loro e con l’uomo.
Ho cercato di dimostrare che l’esistenza umana dipende da uno spazio esistenziale, cioè dall’immagine della struttura ambientale. Ho anche illustrato come tale idea sia condizionata dalla necessità che l’ambiente contenga certe qualità concrete. Queste qualità consistono soprattutto nella presenza di una gerarchia di luoghi a cui l’uomo può appoggiarsi per il suo orientamento.
C. N. Schulz, Il mondo dell’architettura
Pensare e fare architettura è strettamente dipendente dall’anima del luogo in cui si viene ad inserire, e la propria identità non è data a priori ma a seconda del rapporto che si ha col contesto. Come l’architettura anche l’uomo si crea la propria identità a seconda del luogo in cui si trova, data dalle interazioni che si creano tra gli uomini che abitano lo stesso spazio esistenziale. Vi è quindi la necessità di architetture locali, di spazi in cui l’uomo possa formare la propria identità attraverso l’esperienza. Camminando lo spazio, sia esistenziale che ambientale, l’uomo diventa così in grado di definire i propri confini, ossia di creare un linguaggio proprio in cui l’uomo possa abitare poeticamente. Consapevolezza poetica che non può non prescindere dal genius loci poiché l’architettura è sempre data in un punto preciso dello spazio.
Se la rivoluzione industriale aveva portato ad un capovolgimento nel rapporto uomo-natura, la rivoluzione tecnologica porta ad una subordinazione della natura e dell’uomo alla tecnica. Si ha un capovolgimento dei mezzi in fini, la tecnica non è più intesa come strumento volto a soddisfare i bisogni dell’uomo, ma diventa il fine a cui tutto viene subordinato. L’uomo e la natura diventano strumenti e la tecnica diviene al contempo soggetto e ordine immutabile, questo comporta all’uscita dell’uomo dalla storia; uscita che si ha nel momento in cui la volontà umana cede alla tecnica per il raggiungimento di qualsiasi fine. Il soggetto della storia diviene così la tecnica che non essendo più strumento dispone della natura come fondo e dell’uomo come funzionario. E se l’uomo esce dalla storia ne esce anche l’architettura, perché senza l’uomo che crea lo spazio esperenziale, rimarrebbe soltanto un fatto, un’opera d’arte che rappresenta soltanto, non essendo più in grado di svelare la verità. Con la rivoluzione tecnologica si ha un aumento quantitativo della tecnica che rendendosi disponibile per qualsiasi scopo cambia qualitativamente lo scenario; diventa quella che Hegel definisce l’universalità esistente del processo pratico. Tutto ciò che è stato scritto precedentemente viene messo in crisi: la tecnica assume un ruolo autonomo rispetto alle finalità che gli uomini si propongono, non avendo più un controllo del fine.
Gunther Anders, allievo di Heidegger, dopo aver trovato lavoro alla Ford in America, scrisse al suo maestro: “Lei mi ha insegnato che l’uomo è il pastore dell’essere, ma io qui alla Ford mi sento il pastore delle macchine”. La rivoluzione tecnologica ci ha portato all’oblio dell’essere, che coincide in parte anche con l’oblio del mondo architettonico, dove il potenziamento continuo della tecnologia, decide i limiti e i punti di passaggio di qualsiasi progetto. La relazione degli uomini con le cose viene dominata dalla tecnica, la conoscenza non viene più percepita in termini contemplativi ma secondo le modalità del dominio tecnico.
È ormai da tempo che la cultura architettonica, riflettendo su se stessa, sembra aver individuato una colpa originaria, di cui sembra urgente il risarcimento. A ben vedere, tuttavia, il problema non è specifico dell’universo architettonico. Raramente chi tenta di dar forma ai disagi della ricerca artistica contemporanea evita il riferimento alla condizione umana generata dalla raggiunta libertà di valore, dall’estendersi dei processi di secolarizzazione, dal compiersi del moderno nichilismo.
M. Tafuri, Ricerca del Rinascimento: principi, città, architetti
Manfredo Tafuri nel suo libro Ricerca del Rinascimento, pubblicato nel 1992, si sofferma con preoccupazione sul destino prossimo dell’architettura e individua nell’affermarsi del nichilismo la radice della crisi dell’architettura contemporanea. Un problema che oggi pare non essere ancora superato, ma che con l’avvento della rivoluzione digitale è stato ulteriormente enfatizzato ed aggravato. La mancanza di fine con cui Nietzsche descrive il nichilismo è stata sopperita dalla tecnica che diventa la sintesi ultima di tutti i fini. L’uomo non sceglie più il fine, il quale viene deciso dalla tecnica che a seconda delle proprie possibilità ci guida verso la sua realizzazione. Un’autonomia della tecnica dalle finalità che l’uomo si propone conduce ad un non controllo dei fini, che non saranno più rappresentati dal bene ma dal mezzo tecnico disponibile che deve essere continuamente potenziato dal migliore strumento che la tecnica possiede: l’uomo.
Quando il mezzo diventa fine, nella catena infinita della conquista dei mezzi, la vita umana vive i suoi momenti come se ciascuno fosse un fine ultimo, (..) e contemporaneamente come se nessuno di questi momenti raggiunti fosse, come in effetti non lo è, lo stadio definitivo, ma solo il punto di passaggio e il mezzo per stadi sempre più elevati. (…) occorre riconoscere i segni della tecnica rintracciabili nella disposizione che essa da del mondo, nella riduzione della verità ad efficacia.
U. Galimberti, Psiche e téchne: l’uomo nell’età della tecnica
L’architettura nichilista contemporanea si basa proprio su quest’ultima parola: efficacia, che assieme ad efficienza diventano i fini stessi dell’architettura.
Basti leggere una delle tante interviste a Stefano Boeri, il progettista del Bosco verticale, per accorgersi subito di come efficacia ed efficienza siano non soltanto i fini, ma i soggetti stessi del suo progetto come delle sue interviste. Un’architettura priva di valori in cui l’uomo è uscito completamente di scena e serve soltanto come strumento per dominare una natura violentata, che nasce dal cemento e non dalla terra. Un’architettura priva enti come il genius loci, e lo spazio esperenziale che permettono all’architettura stessa di poter essere un unicum e quindi di svelare la verità. Al Bosco verticale, o meglio Boschi verticali dato che ormai stanno crescendo sparsi in tutto il mondo, pare che, oltre al profitto, interessi soltanto migliorare efficacia ed efficienza, che non avranno mai un punto di arrivo perché nell’era della tecnica non si ha un controllo dei fini ma soltanto un potenziamento dei mezzi tecnici disponibili. Non mi sorprende affatto che il progetto del Bosco verticale abbia vinto numerosi premi internazionali, tra i quali “Migliore architettura del mondo” nel 2015 e “International Highrise Award” nel 2017. È giusto che abbia avuto questi riconoscimenti perché da sempre l’architettura è lo specchio della società, in questo caso entrambe accomunate da due parole: efficacia ed efficienza, ovvero l’emblema del nichilismo.
Esistono però anche architetture in grado ancora di svelare la verità; l’architettura può e deve tornare ad avere un ruolo guida nel condurre la società al di fuori del nichilismo. L’architettura ha il dovere di provarci, e se non riuscirà nel suo intento, resterà, come aveva già profetizzato Edoardo Persico nel 1935, fede segreta dell’epoca. Sostanza di cose sperate.