Van Gogh colorista arbitrario

In una lettera da Arles al fratello Theo, il 5 maggio 1888, Vincent Van Gogh si dice convinto che «il pittore dell’avvenire è un colorista come non ce n’è stato ancora uno». Il successivo 11 agosto gli scrive: «mi servo del colore più arbitrariamente per esprimermi fortemente», e aggiunge: «vorrei fare il ritratto di un amico artista, che sogna i grandi sogni, che lavora come l’usignolo canta, perché è questa la sua natura. Quest’uomo dovrebbe essere biondo. E vorrei mettere nel quadro la stima e l’amore che ho per lui. Lo ritrarrei dunque così come è, più fedelmente possibile, per cominciare. Ma il quadro non sarebbe terminato così. Per finirlo dovrò essere colorista arbitrario (Pour le finir je vais maintenant être coloriste arbitraire).

Esagererò il biondo dei capelli, arrivando ai toni arancione, ai gialli cromo, al limone pallido». E poi, continua Vincent, «dietro la testa invece di dipingere il muro banale del misero appartamento, dipingo l’infinito, faccio uno sfondo semplice del blu più ricco, più intenso che posso ottenere; da questa semplice combinazione, la testa bionda, illuminata su questo sfondo blu suntuoso, rende un effetto misterioso come la stella nell’azzurro profondo». Essere colorista arbitraire. In che senso arbitrario? Qui arbitrio non sta a significare abuso, o capriccio, o licenza. Arbitrio sta qui per giudizio, per dominio, per libera determinazione. Essere colorista, appunto, non farsi colorista. Il colore è l’essere di Van Gogh.

Affermazione questa che intendo più avanti ulteriormente precisare, ma, intanto, spero di far cosa grata al lettore trascrivendo con ampiezza tre brani del giugno di quell’anno 1888. Sono particolarmente illuminanti, credo, e numerosi altri potrebbero richiamarsi riguardo a tale suo, peculiare, essere colorista. Vincent si rivolge a Theo partecipandogli l’impatto con l’avvento dell’estate provenzale (era giunto ad Arles tre mesi prima, allo sbocciare della primavera): «in tutto c’è dell’oro antico, del bronzo, si direbbe del rame, e ciò, con l’azzurro verde del cielo scaldato fino a diventare bianco, dà un colore delizioso, estremamente armonioso. Bisogna che io arrivi alla purezza del colore». «Il Mediterraneo ha un colore come quello degli sgombri, vale a dire è cangiante, non si sa bene se è verde o viola, non si sa sempre se c’è del blu, perché a seconda del riflesso cangiante prende una tinta rosa o grigia.».

«Ho passeggiato una notte lungo il mare sulla spiaggia deserta. Il cielo di un azzurro profondo era punteggiato di nuvole d’un azzurro più profondo del blu base, di un cobalto intenso, e di altre nuvole di un azzurro più chiaro, del lattiginoso biancore delle vie lattee. Sul fondo azzurro scintillavano delle stelle chiare, verdi, gialle, bianche, rosa chiare, più luminose delle pietre preziose che vediamo anche a Parigi – perciò era il caso di dire: opali, smeraldi, lapislazzuli, rubini, zaffiri. Il mare era d’un blu oltremare molto profondo – la spiaggia di un tono violaceo, e mi pareva anche rossastra, con dei cespugli sulla duna (la duna è alta cinque metri), dei cespugli color blu di Prussia».

Essere coloriste consiste in Van Gogh d’una dimensione integrale e in sé compiuta, ove le corrispondenze d’una sensazione sono, come tali, assunte quali relazioni cromatiche. La elaborazione dei sentimenti e la declinazione dei giudizi si istituiscono secondo le commisurazioni proprie del configurarsi in colore d’una ratio coerente, quella della pittura. E pittura in Van Gogh è l’atto del conferire colore nella sua ineluttabilità di gesto, di determinata postura corporale: «sono nella mia pelle, e la mia pelle è nell’ingranaggio delle Belle Arti, come il grano tra le mole», dice a Theo e lo avverte: «ti voglio prevenire che tutti troveranno che lavoro troppo velocemente (trop vite). So già fin d’ora che le mie tele verranno definite frettolose (hâtives)».

Ma non è questione di fretta. È, la sua, una esecuzione che non consente indugio: nell’abbrivio è la concludenza. Così il dipingere di Van Gogh procede secondo la celerità massima che si afferma nel dominio pieno della pennellata, nella padronanza assoluta del proprio tocco (être le maitre de sa touche).

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