Nella bolla del festival in cui le pandemie coi terrori da fine del mondo sono tenuti lontani – poche le mascherine, molti i saponi disinfettanti ma nessuno parla, o forse soffoca l’ansia nel buio della sala – ha fatto irruzione Undine, il nuovo film di Christian Petzold, il più politico tra quelli visti in questi giorni nel concorso, e quello in cui le domande che il presente pone al cinema trovano la forma emozionale più inattesa. Forse perché l’origine è la fiaba che come il mito è l’archetipo del mondo, la storia della ninfa che vive nell’acqua e vuole stare sulla terra in nome dell’amore assoluto. Ma gli amori sono mutevoli, cambiano e non sempre con esiti felici, perciò lei può solo vendicarsi con dolore dei tradimenti subiti. La prima scena ci mostra Undine col suo ex che le aveva promesso amore eterno e ora ha un’altra, lei gli giura di ucciderlo se non tornerà indietro: devo farlo, gli ripete.
Undine – che attraversa l’inquadratura con la fisicità potente di Paula Beer – oggi è una giovane storica, vive a Berlino, su Alexandeplatz, lavora come free lance in un museo spiegando la storia della città ai visitatori. L’amore per lei è assoluto , è «il centro» che cerca la cui mancanza è una voragine come per la metropoli in cui vive, che lo ha perduto, e per questo dopo la riunificazione, trent’anni fa, ha voluto ricrearlo. Gli edifici riprodotti dai plastici coi quali la giovane donna illustra le trasformazioni la raccontano, sono i segni della Storia: la guerra, il Muro, tutto è lì, nelle architetture, nel ruolo che viene loro assegnato, nel potere simbolico che racchiudono– è stato proprio da un film sulle architetture nel dopoguerra tedesco che prese avvio la Neue Welle tedesca, affrontando il tabù del nazismo; era un cortometraggio di Alexander Kluge – a cui in questi giorni è dedicata la mostra The Theatre of Cinema.
QUANDO la sua esistenza sembra precipitare appare Christoph (Franz Rogowski), è un ingegnere subacqueo, come quel palombaro dell’acquario che gli crolla addosso, e mentre i pesci rossi boccheggiano sul pavimento loro si guardano e l’amore ricomincia, totale, unico, eterno. Ma potrà essere sempre così, sarà davvero «per sempre»? etzold dice di avere lavorato sulla Sirenetta di Andersen, ma anche su un testo di Ingeborg Bachmann dedicato alla Ninfa, per questo melodramma acquatico sospeso tra presenza e oblio, una traiettoria che attraversa i suoi film abitati dai fantasmi del passato o di un presente che preferisce allontanarlo. I due sono felici, lui l’ha fatta rivivere, l’ha sottratta alle profondità acquatiche, al suo destino. E poi? Il palombaro che le ha regalato Christoph per ricordare il loro primo incontro cade, lui rovescia il vino sul muro della sua stanza da letto, gesti goffi o segni di qualcosa che sta per accadere?
NON È SEMPLICE unire la Storia a una dimensione fantastica, o soprannaturale, con la semplicità con cui Petzold riesce a superare questa divisione attraverso la linea del cinema: è qui che la dimensione fantasmatica dei suoi personaggi, stavolta più esplicita perché è appunto nella mitologia che pone le sue origini, diviene concreta, attuale – secondo la «lezione» di Farocki a lungo autore dei suoi film prima della sua morte.
LA NINFA che ama e vuole essere amata, figura romantica di un sentimento assoluto è l’unica che ha ancora una coscienza di quanto è accaduto nei secoli che si sono avvicendati su quelle macerie in continuo mutamento, della «ricostruzione» che ha unificato le due Germanie secondo le necessità del capitale, accumulando edifici su edifici, lavori in corso, la frenesia della gentrificazione velocissima e continua.
Cosa racconta dunque Undine? Una storia d’amore, di rinascita un luogo, Berlino, nel nostro tempo, il sentimento precario della contemporaneità, di un impossibile assoluto, delle promesse e delle delusioni, degli accidenti e delle scoperte, delle certezze che scandiscono le relazioni degli individui. Nel fondo dell’acqua, laddove Berlino trae origine, Undine continua a apparire. E se tutto intorno viene inghiottito nell’oblio nel desiderio assoluto della ninfa fantasma, che attraversa il tempo, permane la capacità di resistere, di trasformarsi eternamente nella sostanza acquatica conservando la dolcezza di una memoria, di un vissuto che torna, di quella storia che ci appartiene.