UNA SVOLTA PER SALVARE GLI ATENEI.

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Un gruppo di 5400 docenti universitari (oltre il 10% del totale) ha deciso di sospendere per 24 ore il primo appello della sessione autunnale, quella che inizia a settembre: l’obiettivo dello sciopero è ripristinare le progressioni di carriera e gli scatti di anzianità che erano stati bloccati nel 2010 dal governo Berlusconi e che sono ripartiti solo recentemente. Personalmente, non ritengo che l’automatismo degli scatti retributivi sia il modo giusto per ricompensare chi insegnanti, perché del tutto slegato dalle competenze e dall’impegno: sarebbe meglio arrivare a retribuzioni differenziate, sulla base della produzione scientifica, della capacità didattica e della disponibilità di ciascun docente ad assumere incarichi amministrativi, come è avvenuto con successo in Inghilterra a partire dagli Anni 90. Detto questo, la protesta è fondata, per almeno due ragioni. Intanto, mette in luce un’ingiustizia. La legge del 2010, nata in una situazione di difficoltà finanziaria del nostro Paese, bloccava gli scatti di tutte le categorie del pubblico impiego. Nel giro di qualche tempo, le altre categorie, inclusi gli insegnanti della scuola – più numerosi e capaci di esercitare una pressione politica -, hanno ottenuto il ritorno ai normali automatismi stipendiali. Per i docenti universitari il blocco è rimasto. La perdita economica è ingente: parliamo di svariate decine di migliaia di euro lungo l’arco della vita lavorativa, con effetti che si trascinano sulle pensioni; soprattutto, al di fuori dell’anzianità, i docenti non ricevono altre forme di aumento retributivo. Si dirà: i professori universitari sono comunque un gruppo privilegiato, con pochi obblighi lavorativi e la possibilità di integrare il reddito, svolgendo lucrose attività al di fuori degli atenei. In realtà, questa è una visione poco aggiornata: oggi i docenti di tutti i livelli hanno visto aumentare notevolmente le ore obbligatorie di insegnamento; devono sottoporsi a continue (e sacrosante) forme di valutazione del loro operato; devono accollarsi mansioni didattiche e amministrative che all’estero spesso toccano a giovani dottorandi o a personale di supporto; devono supplire alle carenze di organico dovute ai pensionamenti che le regole attuali impediscono di rimpiazzare integralmente. Pochi altri comparti del pubblico impiego in pochi anni hanno aumentato così significativamente la loro produttività, pur subendo una decurtazione relativa dei salari. Certo, come ovunque, anche nell’accademia ci sono gli incompetenti o gli svogliati: ma la soluzione non è di penalizzare tutti, demotivandoli, semmai di allontanare chi non lavora. La seconda fondata ragione della protesta è attrarre l’attenzione su una preoccupante ambiguità italiana. Da un lato, abbiamo l’obiettivo di portare al 40% la quota di laureati sulla popolazione giovanile, oggi al 25%, fra le più basse dei Paesi avanzati; dall’altro, siamo quelli che spendono meno per l’università: l’1% del Pil, di cui lo 0,75 da parte dello Stato, contro una media Ocse dell’1,6 e dell’1,1 rispettivamente. Nei Paesi scandinavi la spesa pubblica è doppia della nostra, mentre in Franca e Germania supera abbondantemente l’1% del Pil. Se l’Italia ha veramente a cuore lo sviluppo di competenze elevate dei giovani, e, di conseguenza, migliori prospettive di lavoro e di crescita economica, non può investire così poco nell’università (in proporzione, si investe molto di più nella scuola). Ovvio, non tutti i soldi devono finire in scatti di anzianità, anzi; ma con risorse così scarse e senza la possibilità di creare opportunità di carriera per i tanti bravissimi giovani ricercatori che abbiamo, il destino dei nostri atenei rischia di essere segnato.
fonte:La Stampa, http://www.lastampa.it