Una Scuola tra distanze e continuità

Si può anche non amare la Scuola di Francoforte (non è il mio caso) ma ad ogni modo un merito bisogna comunque riconoscerglielo: fra le grandi correnti di pensiero del Novecento, quella francofortese è una delle poche che non solo è riuscita a mantenersi vitale per circa un secolo (è nata infatti negli anni Venti) ma è stata anche capace di rinnovarsi continuamente, conservando sempre qualcosa dell’ispirazione originaria. Da questo punto di vista, quella della Scuola di Francofortese è davvero una storia singolare; che forse è stata resa possibile dal fatto che l’Istituto francofortese per la ricerca sociale è nato come istituzione appoggiata all’Università ma dotata di finanziamenti propri, il che le ha consentito di mantenere più saldi i suoi orientamenti e la sua indipendenza.

NEL RICCHISSIMO VOLUME di Giorgio Fazio (Ritorno a Francoforte. Le avventure della nuova teoria critica, Castelvecchi, pp. 416, euro 34) l’autore ricostruisce la vicenda della teoria critica francofortese dalle origini fino agli sviluppi più recenti; nonostante l’accuratezza dell’analisi storica, però, il libro ha un approccio più teorico che semplicemente ricostruttivo. Nel dialogo che si snoda attraverso le quattro diverse generazioni di teorici francofortesi (Adorno-Horkheimer, Habermas, Honneth e per finire Hartmut Rosa e Rahel Jaeggi) Fazio sottolinea infatti non solo le critiche che ogni nuova generazione solleva nei confronti della precedente, ma anche altri aspetti forse meno evidenti, come per esempio un certo gioco di corsi e ricorsi: l’allontanarsi e poi il riavvicinarsi all’originario radicalismo «negativo» di Adorno, il prevalere di volta in volta delle tonalità più kantiane (Habermas) oppure più hegeliane (Honneth e Jaeggi), la dinamica un po’ edipica per cui i figli hanno bisogno di allontanarsi dai padri mentre i nipoti tendono a riscoprirli. Ma in questa bella storia di famiglia passano sotto i nostri occhi questioni essenziali per chi sia interessato alla prosecuzione del pensiero critico.

UNA SVOLTA DIRIMENTE per tutto il percorso francofortese è per Fazio la critica habermasiana del «negativismo» adorniano: il critico non si mette più nella posizione, tipica per esempio della Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno, di chi contempla dall’esterno un paesaggio sociale devastato. Lavora piuttosto a rintracciare, nelle pieghe delle soggettività moderne e postmoderne, gli elementi di disagio e di conflitto, le potenzialità di emancipazione che possono operare effettivamente per la messa in questione degli assetti dominanti.

IN BUONA SOSTANZA, il punto che emerge con Habermas e dopo Habermas è che la critica perde di senso, non si giustifica neanche più, se si limita a tracciare una visione della società più o meno apocalittica, dove i soggetti sono totalmente manipolati e le risorse di liberazione del tutto assenti – questo era il rischio che correva la teoria critica adorniana. Con Habermas si inaugura una prospettiva diversa: le risorse per la critica sono immanenti, interne alla realtà sociale stessa. E vengono individuate, dal capofila della seconda generazione francofortese, nell’elemento del linguaggio, del dialogo, nel paritario riconoscimento di ciascuno che è già presente, anche se implicito, dove i soggetti interagiscono discorsivamente gli uni con gli altri.

A un certo punto dell’itinerario habermasiano, perciò, la teoria critica si declina come etica del discorso, democrazia deliberativa, scommessa sul ruolo decisivo della sfera pubblica. Queste risorse etico-normative, però, obietta Axel Honneth dischiudendo lo spazio per una terza generazione del pensiero francofortese, sono situate su un piano di principio che rimane troppo lontano dalle esperienze effettivamente vissute dagli attori sociali. È necessario indagare più a fondo i potenziali di conflitto; non con la chiave di lettura del conflitto distributivo, ma con quella plasmata da Hegel della «lotta per il riconoscimento». Alle radici della protesta sociale e delle dinamiche di emancipazione vi sono dunque, per Honneth, le aspettative di riconoscimento degli attori sociali, che per un verso sono incarnate nelle istituzioni vigenti, ma che al tempo stesso vengono continuamente limitate o rifiutate. È nell’esperienza del riconoscimento dovuto, ma nei fatti negato, nel vissuto dell’umiliazione o dell’ingiustizia subita, che si radica la possibilità di lottare per cambiare le cose.

UN APPROFONDIMENTO particolare il volume di Fazio lo dedica infine agli esponenti della quarta generazione della Scuola francofortese, quella degli attuali cinquantenni, e in particolare a Rahel Jaeggi e Hartmut Rosa. Un punto significativo che merita di essere notato è che, per entrambi, ritorna centrale un tema che aveva dominato nelle discussioni marxiste degli anni Sessanta, quello dell’alienazione. Esso però viene declinato in modo del tutto innovativo; mentre Jaeggi ne indaga soprattutto le dimensioni individuali e psicologiche, Rosa lo connette strettamente con il focus principale del suo lavoro, la teoria dell’accelerazione sociale e delle conseguenze che essa comporta sia a livello sistemico che sul piano del vissuto. Con gli sviluppi più recenti, dunque, la teoria critica torna a proporre una lettura dell’alienazione sociale che ancora una volta si caratterizza, come è sempre accaduto nella vicenda francofortese, per un complesso mix di distanza e continuità rispetto alle tematiche sviluppate dai padri fondatori.

 

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