La «Buona scuola» è stata finalmente varata e le critiche non sono tardate. Non sono diverse da quelle che hanno accompagnato ogni riforma degli ultimi 20 anni e, purtroppo, nessuna affronta le vere carenze.
La scorsa domenica, su questo quotidiano, Ernesto Galli della Loggia ha scritto che manca una «visione» di come migliorare la scuola italiana. È vero, ma quale deve essere? C’è quella, implicita in questa riforma, secondo cui per migliorare basta trattare un po’ meglio gli insegnanti, stabilizzandoli e pagandoli di più. C’è l’opinione — molto diffusa, specie tra intellettuali e docenti universitari — per cui ci vorrebbe un ritorno al passato, a una scuola di élite senza smartphone che insegni una cultura soprattutto umanistica per restituirle la sua (presunta) antica capacità di formazione culturale e morale del Paese. Al passato vorrebbero tornare anche molti imprenditori che richiedono la scuola dei «mestieri», magari quelli più «utili» al mondo del lavoro di oggi: più informatica, più periti meccatronici per le aziende manifatturiere, più storia dell’arte e inglese per il turismo. Sindacati e studenti ripetono infine il mantra: più diritto allo studio.
È raro però che una «visione» per il futuro possa basarsi su un ritorno al passato. Soprattutto, non potrà mai nascere se non c’è accordo sulla domanda di fondo: a che serve la scuola del nuovo millennio?
I migliori sistemi educativi del mondo hanno da tempo dato una risposta: serve a formare le competenze del XXI secolo, cioè imparare a ragionare con la propria testa, avere spirito critico, risolvere problemi e impegnarsi a fondo, innovare e migliorare, comunicare e interagire, soprattutto in team. Queste abilità rappresentano oggi una nuova dimensione del termine «cultura» e sono richieste a gran voce dalle aziende capaci di affrontare le sfide di questo secolo, quelle che offrono la maggior parte dei posti di lavoro. Ma sono utili anche per essere buoni cittadini, elettori, genitori, coniugi e risparmiatori: per questo vengono anche chiamate «competenze della vita».
I sondaggi ci dicono che, secondo la maggioranza dei datori di lavoro, la scuola italiana non insegna a sufficienza queste competenze, mentre quasi tutti i docenti sono invece convinti del contrario (e non vedono quindi l’esigenza di cambiare). Ed è questa la causa principale dell’elevata disoccupazione giovanile in Italia, da molto prima che iniziasse la crisi.
Dopo 50 anni di tentativi abortiti di creare una vera istruzione di massa la vera sfida è quindi oggi quella di cambiare radicalmente il percorso formativo di un giovane tra i 14 e i 22 anni. Questa «visione» deve appoggiarsi su un numero di riforme essenziali che mancano alla «Buona scuola».
In primis, fare durare di meno il percorso formativo, riducendo forse gli anni delle superiori ed eliminando la piaga dei fuori corso all’università, che spesso ritardano la laurea per ottenere un 110 e lode (che comunque un datore di lavoro apprezza meno di un buon voto ottenuto nei tempi previsti).
Secondo, valutare seriamente le scuole e soprattutto i loro presidi, il cui ruolo la «Buona scuola» intende rivalutare. Ciò ha scatenato le critiche contro la «scuola azienda» e il suo «preside manager con troppo potere». Purtroppo chi critica non sa che non di potere si tratta, ma di bravura nel guidare un team di insegnanti. Nel mondo è noto che le scuole migliori hanno presidi eccellenti e che in Italia ce ne sono migliaia di ottimi, ma anche di mediocri. La valutazione di un istituto e del suo preside deve essere quindi basata su una valutazione esterna e obiettiva e non può essere lasciata alla «autovalutazione» come previsto dalla riforma e come richiesto da molti insegnanti: questo sistema potrebbe funzionare, al limite, solo in Finlandia (dove ci sono le migliori scuole d’Europa) e nei migliori istituti italiani.
Terzo, vanno ripensati radicalmente curriculum e didattica, che devono essere meno nozionistici e più capaci di formare quel pensiero critico misurabile con i test tipo Invalsi e Pisa. Non conta più tanto che cosa , ma come si studia, e questo comporta una rivoluzione della didattica (in classe e a casa) e un enorme sforzo di riqualificazione e formazione on the job degli insegnanti.
Quarto, un apprendistato alla tedesca. Che non è uno stage: perché, dai 14 ai 17 anni, i giovani tedeschi passano metà del loro tempo lavorando in fabbriche e uffici, imparando non tanto un mestiere, quanto le competenze necessarie nel mondo del lavoro. È un apprendistato ben diverso dall’alternanza scuola-lavoro italiana, dove gli istituti organizzano visite in aziende quasi fossero zoo, e i giovani fanno brevi stage con mansioni ai margini del lavoro aziendale. Gli studenti italiani che rifiutano l’idea dell’apprendistato alla tedesca dimenticano che quest’ultimo è la principale ragione della bassa disoccupazione giovanile in quel Paese.
Infine, l’esigenza di restituire alla scuola italiana la sua capacità di certificare il merito in modo credibile. Oggi i datori di lavoro non credono più ai voti, dato che ancora nel 2014 i cento e lode alla maturità al Sud continuano ad essere il doppio che al Nord. Peraltro, nulla cambierà fino a quando non evolverà radicalmente la mentalità di molte famiglie che vedono il voto come una valutazione della persona e non della prestazione, che per definizione è migliorabile se il colloquio con i docenti si sposta dal piano di una «trattativa» a quello di una serie di suggerimenti per fare meglio.
Solo le famiglie italiane veramente interessate al futuro dei loro giovani potranno avviare questo tipo di riforme così radicali. Ma per farlo, devono imparare a comportarsi da veri «clienti della scuola». Non farlo comporterà il rischio di continuare a essere quello che sono state negli ultimi 20 anni: vere e proprie fabbriche di disoccupati. meritocrazia.corriere.it