Una luce sulla strage di Bologna.

La strage del 2 agosto di 38 anni fa è di nuovo in tribunale. Un processo che merita particolare attenzione
Molti non lo sanno, ma la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto di trentotto anni fa è di nuovo in tribunale. Un processo in cui purtroppo si riproducono i vizi peggiori del dibattito politico, dominato com’è dalle spettacolari provocazioni dei tre condannati in via definitiva coinvolti in veste di testimoni, ma che invece – o forse proprio per questo – merita particolare attenzione.

Con buona pace degli innocentisti che per decenni hanno sfruttato l’anniversario per rinfocolare “piste” alternative (l’ultima, incentrata sul terrorista tedesco Kram, legato al famigerato Carlos, è stata archiviata nel 2015), il terzo processo, cominciato il primo giorno di primavera del 2018 (le udienze riprenderanno a settembre, dopo la pausa estiva), si iscrive nel solco delle condanne per strage passate in giudicato agli ex Nar Mambro, Fioravanti e Ciavardini.

La Corte d’Assise bolognese deve infatti stabilire se Gilberto Cavallini, già condannato con loro per banda armata, abbia agito come supporto logistico degli stragisti, fornendo ospitalità, auto e documenti falsi.

Sebbene la Corte stia resistendo ai tentativi di trasformare il dibattimento nell’ennesimo revival del depistaggio palestinese, non può impedire ai condannati-testimoni di dirottare l’attenzione dei media, mostrando all’osservatore distratto una tragica farsa.

Valerio Fioravanti, attore consumato (d’altro canto è stato un enfant prodige della fiction tv, prima della carriera da terrorista), ha tenuto banco riaffermando l’innocenza propria e dei camerati e negando di essere mai stato fascista. Francesca Mambro non è da meno: rifiuta persino la qualifica di “estremista di destra” (ma, con buona pace di Almirante e dei suoi estimatori, entrambi rivendicano la militanza nel Msi) e, tra grottesche giustificazioni ideologiche, straparla di “pacificazione” e “riconciliazione” (con chi?), nobile mantello sotto cui rigurgitano pretese d’innocenza e perduranti reticenze.

Per i propri silenzi, Ciavardini rischia addirittura un’incriminazione: non vuole dire chi lo ospitò in quel di Treviso, ai tempi in cui il Veneto era una roccaforte dei terroristi neri, mica dettagli. In compenso, si compiange come “ottantaseiesima vittima” della strage (per di più in prossimità del Giorno della Memoria del terrorismo): sarebbe ridicolo, se non fosse osceno. Ma cosa c’è dietro questo polverone?

Primo, gli eterni vizi dell’estrema destra: vittimismo e falsificazione della realtà. A parte un ristretto manipolo di collaboratori di giustizia, da decenni i neofascisti vecchi e nuovi negano strenuamente – a dispetto delle evidenze giudiziarie e storiche – ogni coinvolgimento nello stragismo e i legami con i servizi segreti. Si atteggiano a giustizieri, soldati in guerra, una minoranza vessata, coraggiosa, romanticamente solidale. Nel lessico di Fioravanti c’è un mondo, non solo tattica processuale. Attenzione, non sono i deliri di qualche vecchio rottame.

Questa allure dei neofascisti seduce ancor oggi ragazzetti in tutta Italia: occorre smontarne puntualmente la retorica – come fanno pm e avvocati di parte civile.

Secondo, le sceneggiate distolgono l’attenzione dai dati importanti e molto gravi che il processo sta portando alla luce. Gilberto Cavallini, 28enne all’epoca della strage, ha un profilo “alto”. Grazie al contributo fondamentale delle parti civili, in aula stanno affiorando i suoi legami con la galassia di Ordine Nuovo (cui sono attribuibili le principali stragi dal 1969 al ’74), a sua volta legata a doppio filo con i servizi. Altre tracce documentali – ricavate da precedenti inchieste – portano verso Gladio.

A dispetto delle ciance degli ex Nar sulla loro “purezza”, tutto questo rafforza il quadro delineato dalle condanne passate in giudicato al gran maestro della P2 Gelli, agli ufficiali del Sismi Musumeci e Belmonte e al faccendiere Pazienza (non a caso la Corte ha rifiutato le dichiarazioni e i documenti da lui offerti) per il depistaggio “internazionale”. Quadro corroborato anche da quanto va emergendo dall’indagine della Procura Generale di Bologna, avviata grazie a un dossier dell’Associazione dei famigliari delle vittime, il cui impegno continua nel segno del “familismo morale”, basato su ricerche incrociate negli archivi digitalizzati dei molti processi per strage già celebrati: movimenti di denaro dal tesoro svizzero di Gelli in prossimità della strage.

Comunque finisca, questo processo amplia il patrimonio di conoscenze circa il fitto reticolo che univa terroristi neri, criminalità comune, servizi e massonerie deviate. Un reticolo molto romanzato ma studiato troppo poco, e invece importantissimo – visto che le sue metastasi continuano a riproporsi.

Fonte: La Repubblica, www.repubblica.it/