I vertici di Expo 2015 giurano che siamo al rush finale. Ma è chiaro che per completare in tempo Padiglione Italia servirebbe qualche cosa di più. Un miracolo, dice qualcuno. Dobbiamo dunque sperare nell’intervento divino, che comunque non abbiamo meritato. Domani, 31 marzo, sono sette anni precisi dal fatidico giorno in cui l’allora sindaco Letizia Moratti annunciò trionfante che la città di Milano aveva vinto la sfida con Smirne. Era ancora in carica il governo Prodi e il presidente della Provincia Filippo Penati rimarcava orgoglioso come gli ispettori del Bureau International des Expositions fossero rimasti impressionati dalla «coesione istituzionale». Non c’è che dire: nelle apparenze i nostri politici sono sempre stati bravissimi. Peccato che quando si deve passare dalle parole ai fatti la «coesione istituzionale» vada regolarmente a farsi friggere. Come nel caso dell’Expo. Dove le cose sarebbero andate ancora peggio se dopo gli scandali non fosse intervenuta tempestivamente l’Autorità anticorruzione, con modalità tali da meritare il riconoscimento dell’Ocse. Pur fra mille difficoltà forse anche sorprendenti. Si duole il presidente dell’Anac Raffaele Cantone nel libro Il Male italiano scritto con Gianluca Di Feo di «aver incontrato i problemi maggiori proprio in due cantieri simbolo dell’Expo, i due progetti che più di ogni altro dovrebbero rappresentare il nostro Paese agli occhi del mondo: il Padiglione Italia e il cosiddetto Albero della Vita. In entrambi i casi i lavori erano in ritardo sulla tabella di marcia e pian piano sono emersi non pochi problemi».
Catone parla di insofferenze verso i controlli, superficialità nell’affidamento dei contratti, anomalie nelle procedure. Il tutto giustificato evidentemente con la necessità di fare in fretta per recuperare il troppo tempo perduto, anche se ormai irrecuperabile. Dei sette anni passati dal 31 marzo 2008 più di metà se ne sono evaporati in contrasti fra i partiti, lotte di potere interne, guerre di poltrone. Prima lo scontro sull’amministratore delegato della società. Poi la battaglia per i terreni, in vista delle future appetitose speculazioni immobiliari. Quindi commissari generali che si sovrapponevano ai commissari straordinari e gli inevitabili conflitti. Per non citare le deroghe infinite (e sospette) al codice degli appalti, con i lavori dell’Expo esentati da ben 78 articoli di quel monumentale regolamento. Una corsia preferenziale tanto larga da provocare le proteste dell’Associazione dei costruttori proprio a proposito dell’appalto da 25 milioni per il solito Padiglione Italia: subito rintuzzate da uno stizzito Antonio Acerbo, il direttore di quell’opera che avrebbe poi patteggiato una condanna a tre anni. E intanto i giorni passavano. Mentre la corruzione dilagava, come fosse il capitolo conclusivo, e naturale, di questo incredibile copione. Adesso che manca un mese al 1° maggio, la memoria non può che andare all’altra Esposizione universale milanese, quella di oltre un secolo fa. Fu un successo senza smagliature, preceduto dalla costruzione del traforo del Sempione: realizzato in poco più di sei anni, era il più lungo del mondo e permetteva il collegamento ferroviario diretto con Parigi. L’Expo del 1906 viene ricordato come l’evento che certificò l’ingresso della giovane Italia unita nel novero delle nazioni industrializzate e l’investitura di Milano come città simbolo di quella svolta. Non vorremmo che l’Expo del 2015 passasse invece alla storia quale prova della italica incapacità a rispettare gli impegni. Anche i più banali, per esempio finire in tempo di arredare casa nostr