Rugarli , farsa e tragedie della vita.

di Claudio Magris

Ci siamo incoraggiati a vicenda a vincere le incertezze e i pudori che accompagnano e talora ostacolano i primi peccati letterari. Giampaolo Rugarli lavorava alla Cariplo e dirigeva la «Rivista milanese di economia» in cui — memore che il padre della scienza economica moderna, Adam Smith, aveva la cattedra di Filosofia morale, memore pure dei suoi antichi sogni di studiare «belle lettere» e consapevole che la banca intrattiene da sempre rapporti tortuosi e profondi con la letteratura, basta pensare a Pontiggia — pubblicava scritti di maestri assoluti di scienza e di matematica, come Bruno de Finetti, ma anche testi di quella strana e inaffidabile mania che è l’invenzione fantastica.
In quella rivista accolse il mio primo racconto o romanzo breve, Illazioni su una sciabola , mentre io ho promosso il suo esordio narrativo, convincendo Garzanti a pubblicare il suo primo romanzo, Il superlativo assoluto , in cui c’è già la sua ilare e triste ferocia, il suo senso grottesco, assurdo e doloroso della vita. È stato uno dei pochissimi libri di cui sono riuscito a convincere un editore, fra tante proposte e tentativi falliti, compresi ad esempio quelli riguardanti i primi, bellissimi testi di Susanna Tamaro, che avevo segnalato invano a varie case editrici, poco prima che Susanna, finalmente edita ma non per merito mio, ottenesse il suo grande successo.
Del resto in quel primo romanzo di Rugarli, il mondo e il meccanismo editoriale sono una macchina affascinante, incomprensibile e mostruosa, una balena che inghiotte Giona e, quando non lo risputa, lo strizza e lo divora come un piccolo pesce. Rugarli, con la sua fecondissima, creativa e sanguigna invenzione, è entrato ed è uscito tante volte dal ventre di quella balena, piombando d’impeto nella narrativa italiana più vitale e significativa, ma non senza amarezze e disincanti; coronato dal meritato successo ma confermato, in quella grande fiera di imbonimenti e di veleni che è la società letteraria, nel suo profondo sentimento della follia, dell’equivoco e della vita quale pacchiano carnevale e forse nostalgico del decoro almeno apparente della vita bancaria.
La sua morte mi porta via un amico, cosa che comincia ad accadermi sempre più spesso, e priva la letteratura italiana di una delle personalità più creative, inconfondibili e vitali.
Il suo ultimo e postumo romanzo, Manuale di solitudine , compendia, come ha scritto Cesare De Michelis in un risvolto che è un vero modello di essenziale saggio critico, «il ciclo estremo, paradossale e grottesco della sua narrativa». Il Manuale di solitudine concentra e riprende la sua balzacchiana commedia umana, tragica e farsesca, dolorosamente pervasa di un impegno morale, sempre sconfitto dal crudele balletto del mondo e mai arreso. Giampaolo Rugarli ha scritto troppo, in una incontenibile proliferazione fantastica, ma ha lasciato dei libri che segnano come una dolorosa cicatrice e un beffardo sberleffo la nostra letteratura — romanzi come La troga , Il nido di ghiaccio , Andromeda e la notte , Il punto di vista del mostro , Il buio di notte , Un bacio e l’oblio , per citarne solo alcuni.
Nel Manuale di solitudine avvengono, in un condominio che è la quintessenza della pagliaccesca infamia del mondo, grotteschi delitti (il giallo è una componente essenziale della narrativa di Rugarli, basti pensare al suo capolavoro, La troga ), camuffati e svelati come in una tombola e talora ripetuti alquanto meccanicamente e prevedibilmente. Ma il centro è il personaggio che li racconta, per il quale misteri, scoperte e colpi di scena sono soprattutto sipari che si alzano e si squarciano sul deserto opaco e marcescente della sua vita. Una vita di solitario impotente, acremente umiliato e battuto ma irraggiungibile nella fortezza della sua solitudine, della sua interiore indipendenza da tutto e da tutti. Forse quest’uomo gode della sua viltà che sfiora l’abiezione, della sua infelicità corazzata dall’indifferenza anche se continuamente ferita, della sua potenziale capacità di affetto, isterilita, vilipesa e stravolta nella malignità.
Pure in questo romanzo ci sono, spesso troppo insistiti e ribaditi, il gusto goloso della realtà e quello amaro del disincanto, la vitalità eccessiva anche quando s’inceppa nell’acre e perversa impotenza. C’è in Rugarli una carnalità corposa e masochisticamente umiliata, accompagnata dal disgusto per la bassezza di cui ciascuno si scopre capace e per la crudeltà insensata di cui si è vittima e in cui ci si crogiola. Ma questo è un volto della pietà, tanto più sofferta quanto più capace di guardare in faccia pure l’ignominia che spesso segna anche la sofferenza e che è l’effetto della violenza subita. Una vergogna e una sofferenza che sono l’effetto, come ha detto una volta Rugarli, di una realtà e di una società sempre più istupidite, narcotizzate e meschine. Addentrarsi senza remore in questa torbida mescolanza è un atto d’amore; un tentativo — più spesso fallito che riuscito — di lenire il dolore che essa infligge all’individuo, scornato e beffato nel suo destino come in un crudele vaudeville .