Novecento Torna il romanzo che ripercorre la vicenda dello studioso antifascista caduto durante la guerra di Liberazione
Antonio Scurati interroga il nostro tempo evocando l’eroismo di Leone Ginzburg
di Chiara Fenoglio
Per Antonio Scurati, di cui Bompiani ripubblica ora Il tempo migliore della nostra vita, la radice della scrittura è duplice: la prima è di natura civile e potrebbe essere definita come una indignazione radicale, non tanto verso l’ingiustizia, quanto piuttosto verso la retorica di un potere che schiaccia con la forza distorta delle parole. A questo potere lo scrittore risponderà in forza di un imperativo morale che gli impone di restaurare l’energia genuina delle parole.
La seconda radice ha invece a che fare con l’io (cioè con ciascuno di noi), e con il nostro rapporto non pacificato né pacificabile con la storia di cui siamo figli: vero punto di luce nella ricerca di Scurati è in effetti l’individuazione di una singolarità che si fa storia, di una serie di esperienze capaci di diventare res gestæ (quella di Leone Ginzburg, nel caso del Tempo migliore, quella di Mussolini, in M. Il figlio del secolo).
Questo secondo piano dell’ispirazione letteraria (come si chiamava un tempo) è il dato centrale, inaggirabile, intorno a cui si erge l’impalcatura del romanzo: la sproporzione tra la vicenda della famiglia Ginzburg e quella della famiglia Scurati va riconosciuta come l’anima di questo progetto intellettuale e letterario. È la domanda su sé stesso a legittimare e irrobustire un’inchiesta che non ha natura strettamente storiografica ma eminentemente letteraria, fondata com’è sull’accostamento tra due vicende che non si incontrano mai, pur avendo in comune «l’incedere sobrio» ma «perentorio» nel continuum storico.
Leone Ginzburg non può essere specchio in cui riconoscersi, piuttosto è un «modello impossibile» — sia per la sua statura morale e intellettuale, sia per la natura epica e tragica dell’epoca in cui visse: ma proprio a partire da questa impossibilità Scurati articola il tema (a lui molto caro fin da La letteratura dell’inesperienza) del rapporto tra destini generali e individuali, tra protagonisti e testimoni, tra esperienza eroica e cronaca televisiva (su cui ancora è tornato su questo giornale l’11 marzo). Se Ginzburg appartiene inequivocabilmente alla prima, Scurati come ciascuno di noi appartiene a quel mondo massmediatico e dorato dominato dall’indistinzione, dalla percezione irreale della stessa realtà.
Il filo del racconto induce il lettore
a riconoscere il valore etico, estetico e politico di una esperienza
che unisce creatività e coraggio
L’abisso che ci divide è un vuoto, o meglio una interruzione che spinge Scurati a ricostruire, partendo dai mattoni minimi della sua vita famigliare, un ponte che leghi passato e futuro, esperienza e memoria. Come la catarsi nell’arte tragica antica, la vicenda di Ginzburg conduce il lettore non a sprofondare nell’abisso dell’orrore o della immobilità, ma a riconoscere il valore etico, estetico e politico di quella esperienza, tramutandola in memoria e dunque preservandone il valore di testimonianza in un momento storico in cui spesso il testimone è muto e spento spettatore.
Muovendosi tra saggio storiografico, memoria famigliare, rielaborazione romanzesca, Scurati interroga in primo luogo il presente, un presente grigio che deve essere riconosciuto come destinatario di un «passaggio di testimone» collettivo: è questa convinzione che spinge Ginzburg a pubblicare le Rime di Dante a cura di Contini nelle stesse settimane in cui Hitler invade la Polonia o a tradurre Guerra e pace mentre è in corso l’operazione Barbarossa; ed è quella medesima convinzione a muovere Scurati alla scrittura in un momento di grave crisi politica per il nostro Paese (Il tempo migliore della nostra vita ha la sua genesi nel 2011, e viene ripubblicato ora in un momento altrettanto arduo).
Pubblicare un libro, nel 1939 come oggi, significa passare quel testimone, nella convinzione che «il passato non ci ha dimenticati»: gli uomini come Ginzburg hanno progettato un futuro che ci riguarda, ci hanno voluti liberi, appassionati, degni delle loro battaglie, hanno lavorato per «colmare il vuoto tra il passato che stava per essere seppellito e il futuro che rischiava di essere abortito». Leone stesso viene acutamente definito da Scurati come «l’uomo che diverrà padre dei suoi figli»: il passato che allunga la sua ombra in forma di destino è fatidico proprio perché crea il suo futuro.
A noi il compito di conservare questa continuità vigile, questa comunità tra vivi, morti e non ancora nati, tra Storia e storie, questa fratellanza «patetica e grandiosa» capace di immaginare un avvenire plausibile: «Non dimenticateci — scrive Ginzburg nel 1942 all’amico Franco Antonicelli — perché l’oblio aggiunto alla solitudine sarebbe una sorte troppo triste».