Un paese senza alleati.

Noi e gli altri
L’ Italia è sola. Dalla questione dei migranti al contenzioso con la Francia è questo il referto che ci consegna la situazione internazionale. È una condizione radicalmente nuova nella storia della Repubblica: per la prima volta dal 1948, infatti, l’Italia non può contare stabilmente né su un potente alleato – come furono per decenni gli Stati Uniti, obbligati dalla «guerra fredda» ad essere al nostro fianco qualunque cosa accadesse – né su un sistema integrato di relazioni forti nel quale tuttavia avere una qualche influenza, com’è stato fino all’altro ieri con l’Unione Europea. Nella quale invece contiamo sempre meno mentre sempre più essa si va trasformando nei nostri confronti in una sorta di potenza tutoria non proprio benevola.
Ormai da tempo l’Italia è sola, dunque. E la sua politica estera è costretta a fare i conti con la storia irrisolta del Paese. Nel corso della prima metà del Novecento, fino alla sconfitta del ’40-’45, quando ci si poteva ancora illudere che il mondo fosse l’Europa, abbiamo pensato di poterci muovere come l’ultima delle grandi potenze o la prima delle medio-piccole: quella che comunque con il suo schierarsi astutamente, e magari all’ultimo momento, da una parte o dall’altra, era in grado di determinare il successo di uno o dell’altro schieramento (da qui il nostro non casuale ingresso nelle due guerre mondiali sempre parecchio tempo dopo che erano iniziate).

Su questa linea, sicuri peraltro della nostra rilevanza e della necessità di affermazione nazionale, non abbiamo cessato di nutrire sogni di grandezza quasi sempre pateticamente smisurati: e quindi finiti come dovevano finire.

Dopo il ’45 la via dell’alleanza occidentale e dell’integrazione europea è stata naturalmente una scelta obbligata. Ma essa è servita a coprire un vuoto: il vuoto apertosi con la sconfitta, che non è stata una semplice sconfitta militare ma ha significato il ridimensionamento brutale dell’intera autorappresentazione nazionale formatasi dall’Unità in avanti. Si è trattato di un vuoto che la democrazia repubblicana non è stata capace di colmare. Sempre più convinti a sproposito della presunta assoluta inattualità dell’idea di nazione (si provino gli illustri membri dell’Ispi o dell’Aspen a organizzare un seminario su tale inattualità a Parigi o a Berlino: si provino, si provino), non siamo stati capaci di rifare a noi stessi un’immagine del Paese da spendere e affermare nelle relazioni internazionali, di disegnare una mappa plausibile, e soprattutto condivisa, dei nostri interessi vitali, e di crederci davvero. Magari accettando l’idea che tali interessi andavano perseguiti anche con l’inevitabile dose di spregiudicatezza. Invece niente: quando si tratta dell’Italia l’impressione è che ad essere spregiudicati sono sempre gli altri. Troppo spesso in un mondo popolato di lupi confessi e di lupi travestiti da agnelli abbiamo pensato che fare la parte degli agnelli autentici equivalesse ad avere una politica. D’altronde come si fa ad essere spregiudicati e cattivi se non si hanno le idee chiare su ciò che si vuole? Da troppo tempo alla nostra diplomazia nessuno sa dire a che cosa debba, possa o voglia servire l’Italia.

Senza dire che il nostro ruolo internazionale continua a scontare tre handicap micidiali ma ormai accettati quasi fatalisticamente. Innanzi tutto la divisività parossistica delle forze e delle culture politiche del Paese circa i veri interessi di questo: con quelle di sinistra in particolare sempre pronte a recarsi alla City per ottenerne il placet prima delle elezioni o a innamorarsi, e ahimè a identificarsi, con lo straniero di turno: da Blair a Obama fino ai recenti sdilinquimenti per Macron. C’è poi l’irrimediabile instabilità dei nostri governi sempre di coalizione e quindi destinati a essere dominati da continue rivalità e litigi interni. Si aggiunga, infine, la permanente inadeguatezza del nostro strumento militare (del resto gli agnelli armati non sono una specie molto diffusa). Un’inadeguatezza di risorse e di attrezzature aggravata da una sorta di curiosa distorsione psicologica dei nostri vertici politico-militari i quali, pur avendo pochi mezzi a disposizione, li usano come il prezzemolo facendosi prendere dalla smania di mandarne un po’ dappertutto (sono attualmente almeno una ventina, credo, i teatri dove è presente la nostra bandiera, spesso con non più di quaranta-cinquanta elementi). Con l’ovvio risultato che contiamo poco o niente dappertutto, e che da nessuna presenza militare siamo mai in grado di riscuotere un vero dividendo politico.

E così la solitudine diventa inevitabilmente subalternità e irrilevanza. In tutti gli scenari geopolitici caldi che ci circondano, dall’Ucraina/Russia alla Siria, all’Iraq, alla Turchia, appariamo di fatto a rimorchio degli altri. Con l’Egitto, dopo la morte di Giulio Regeni, non sappiamo letteralmente che cosa fare. Sulla questione israelo-palestinese ci limitiamo ad aderire regolarmente nelle varie sedi internazionali alla pilatesca posizione della Ue quando non (spero per sbadataggine) a quelle francamente antisemite di altri organismi internazionali. Nel Mediterraneo perfino su Malta – della quale pure, se ben ricordo, garantiamo l’indipendenza con un apposito trattato! – non riusciamo ad avere la minima influenza. Sul teatro libico, infine, subiamo da anni le conseguenze dello smacco inflittoci a suo tempo dall’iniziativa franco-inglese con relativi flussi migratori che ci si sono rovesciati addosso. Ora le cose accennano a cambiare, ma ancora ieri Parigi ha segnato un punto a nostro sfavore con l’organizzazione dell’incontro Sarraj-Haftar, mentre la spedizione navale appena decisa appare avvolta ancora da molte incognite e già si annuncia all’insegna del solito minimalismo del «vorrei ma non posso».

Degli scenari europei è inutile dire. Nella Ue sembra che non possiamo fare altro che accettare la leadership franco-tedesca, tenue foglia di fico che nasconde in realtà la virtuale egemonia della Germania. Della quale siamo costretti ad accettare le direttive economico-finanziarie con pochissimi margini di trattativa (anche per colpa nostra, d’accordo, perché come si sa non abbiamo fatto i compiti a casa: ma comunque senza poter mai chiedere che la maestra controlli anche i quaderni di Berlino…). Mentre da parte della Francia assistiamo da anni, senza fiatare, ai suoi continui acquisti di aziende nostre laddove, se siamo noi che ci azzardiamo a combinare lì qualche affare importante, arriva immediatamente l’altolà di Parigi. Nei Balcani, infine, contiamo qualcosa solo in Albania; nel resto della regione, dove pure dopo l”89 avevamo cercato di avere qualche influenza, tuttavia il rullo compressore dell’economia e della politica tedesca ci ha quasi dappertutto messo ai margini (vedi l’abbandono da parte di Unicredit).

Per capire quali siano le speranze che in generale le cose cambino basta un particolare: nei giorni scorsi si è tenuta alla Farnesina la periodica riunione di tutti i nostri rappresentanti all’estero. Si sarebbe potuto pensare che era un’ottima occasione per parlare con la dovuta schiettezza di qualcuno dei mille problemi accennati in queste righe e di discutere qualche possibile linea d’azione. Ebbene, volete sapere chi presenziava alla riunione? Il nostro ministro degli Esteri, naturalmente, e con lui il nostro capo dello Stato, ma accanto a loro, invitati d’onore, anche i ministri degli Esteri di Francia e Spagna. C’è qualcuno che riesce a immaginare qualcosa di simile a Parigi o a Madrid in una circostanza analoga?

 

Corriere della Sera.