Che dispiacere vedere assegnare il Leone d’oro a un film piatto e prevedibile come Nomadland di Chloé Zhao in una rassegna, magari non al meglio della sua forma, ma coraggiosa, di ripartenza con un numero mai così alto di registe in gara (otto su diciotto), e profonda nell’affrontare la questione del gender. Si è preferito privilegiare il legame della Mostra con Hollywood, mettendo il road movie della regista cinese sulla rampa di lancio per gli Oscar. La storia di Fern (Frances McDormand), una vedova che lascia una città fantasma del Nevada per una vita nomade a contatto con la Natura, è un tema già esplorato in maniera più estrema nella fiction, per esempio, da Sean Penn in Into the wild (2007). Stesso discorso per la marginalità, rappresentata nel film di Zhao da veri homeless che recitano: lo aveva già fatto Gianfranco Rosi, uscito a mani vuote dal concorso, in Below Sea Level (2008) con un lavoro di otto anni in una piana nel deserto in California a 40 metri sotto il livello del mare.
La presidente della giuria, Cate Blanchett, non ha capito Notturno (vedi recensione, sotto), risultato di tre anni passati da Rosi sui confini fra Iraq, Kurdistan, Siria e Libano per raccontare attraverso la gente comune il Medio Oriente, devastato dai conflitti. L’oro va indirettamente anche a Frances McDormand (tra i produttori della pellicola), ma il ruolo da loser è sicuramente uno dei meno ardui per una grande attrice, già premio Oscar per Fargo (nel 1997) e Tre manifesti a Ebbing (2018). A pensar male si direbbe che ci si è voluti tenere buoni i Coen (Joel è sposato con Frances), visto che i geniali fratelli americani non disdegnano il Lido per le loro anteprime. Si soffre a saper trascurati Miss Marx di Susanna Nichiarelli, lettura rock e femminista della figlia dell’autore del Capitale, per cui si sperava l’oro; o Quo vadis, Aida di Jasmila Žbani sulla strage di Srebrenica, 25 anni dopo, dove recitava una potentissima Jasnaurii, cui tributare la coppa Volpi, che invece è stata assegnata a Vanessa Kirby per Pieces of a woman di Kornél Mundruczó. Mundruczó nel raccontare la morte di suo figlio subito dopo il parto si è esercitato in un’opera molto più addomesticata di quelle cui ci ha abituato in passato (la banda dei cani randagi in White God – Sinfonia per Hagen nel 2014 o i profughi ultraterreni di Una luna chiamata Europa 2017), ma l’autobiografismo è difficile, come girare in un Paese (l’America) con una lingua diversa dalla propria. Kirby e Shia LaBeouf incappano in alcune trovate facili del binomio “coppia che scoppia” per un dolore insopportabile, ma la lunga scena iniziale del travaglio tocca corde primitive. Kirby è certamente più credibile qui che nell’interpretazione della cowgirl in The world to come di Mona Fastvold, un Brokeback Mountain al femminile annacquato, dove è una montanara analfabeta dell’Ottocento, che dimostra una sensualità disinibita e immediata alla vicina di casa.
L’argento quest’anno invece è andato a un film da seconda serata in tivù, Wife of a spy, di Kiyoshi Kurosawa con bellissimi costumi e ruoli molto blanchettiani. Siamo in Giappone prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, un mercante di stoffe incappa in affari che il Governo nazionalista vorrebbe occultare e cerca la strada per denunciare il massacro negli Stati Uniti. Peccato che si metta di mezzo una moglie che vuole salvare il matrimonio diventando una spia. Per lo meno affettato.
Ha avuto molto più senso assegnare il Leone d’argento – Gran premio della giuria a Michel Franco con Nuevo orden, uno di quei film che stordiscono quando si è in sala e si considera con più ortodossia a qualche ora di distanza. Il regista messicano racconta la storia di un sovvertimento popolare, che invade le strade del Paese latinoamericano ai giorni nostri. I rivoltosi usano la vernice verde (i gilet gialli francesi sono stati un parametro) per imbrattare le case dei ricchi, devastarle e ucciderne i proprietari. Colori vivissimi, musiche alte e penetranti, scene di guerriglia credibili, forse perché purtroppo l’America del Sud ha una tremenda consuetudine con i colpi di stato militari. La chiamano distopia, ma la realtà sembra molto urgente.
Peccato solo il premio speciale della giuria a Dorogie tovariši di Andrej Konalovskij. Racconta i dubbi di una donna, membro del partito comunista di una città della Russia meridionale, Novoerkassk, dove il Pcus non riesce a reprimere la ribellione popolare per l’aumento del costo della vita. Una vicenda realmente accaduta e duramente repressa nel 1962. Dorogie tovariši è uno dei film più belli di questo festival, dall’impeccabile estetica, in bianco e nero, formato quadrato «per vedere il cielo». Dopo due argenti con Le notti bianche del postino (2014) e Paradise (2016) avrebbe potuto ambire all’oro.
Inspiegabile il premio per la migliore sceneggiatura (inesistente) per The disciple di Chaitanya Tamhane, mentre nulla è andato alle selvatiche Sorelle Macaluso di Emma Dante. Hai voglia a nobilitare l’idea di un individuo che si consacra all’arte, in questo caso la musica classica indiana del rqa, che trova la sua strada dopo aver riconosciuto di non aver talento. Gli interminabili minuti in cui il protagonista Sharad (Aditya Modak) vocalizza inceppandosi e gira in moto per una metropoli indiana deserta (impossibile!) con voce fuori campo salmodiante è una vera tortura, anche se porta il marchio di Alfonso Cuarón come produttore esecutivo.
L’Italia se ne torna con il premio meno probabile, quello per Pierfrancesco Favino come migliore interprete maschile per Padrenostro di Claudio Noce. Favino, eccellente attore – che ha dimostrato di aderire così bene ai suoi personaggi da confondersi quasi con il Craxi di Amelio o il Buscetta traditore di Bellocchio -, qui si rivela in tono minore per un film non risolto, di cui è anche produttore. Noce racconta la storia del padre Alfonso, vicequestore di Roma, vittima nel 1976 di un agguato terroristico, ricostruito attraverso gli occhi di due bambini, che la Storia ha messo dall’altra parte della barricata. Ma il piano emotivo infantile non restituisce una lettura dei terribili anni di Piombo: un adolescente di oggi non ci capirebbe nulla. Sarebbe stato molto meglio incoraggiare Oleh Yutgof, protagonista del poco compreso Never gonna snow again di Ma?gorzata Szumowska e Micha Englert, in cui un massaggiatore ucraino incontra i nuovi mostri del consumismo russo, liberandoli dalle loro sofferenze con mani dai poteri taumaturgici. Li ha acquisiti con lo scoppio del reattore nucleare di Chernobyl del 1986: surreale, ma vero cinema-cinema con sfondo psicoanalitico. Giusto il premio a Rouhollah Zamani, nei panni di Alì, protagonista di Khrshd di Majid Majidi, capo di una banda di dodicenni che per sostentare le famiglie vive di lavori d’accatto e piccoli crimini. Neorealismo iraniano, tirato e preciso, con piccoli attori che davvero lavoravano sulla strada.
La Mostra del cinema chiude vittoriosa arrivando fino alla fine ed è un vero miracolo ai tempi del Covid con i produttori americani e francesi che non hanno voluto affidare i propri film a Barbera per la paura di non ritorno immediato nelle sale disertate per la pandemia. Abbiamo visto alcuni film indimenticabilmente brutti (Laila in Haifa: che è successo ad Amos Gitai E l’azero sentenzioso In Between Dying di Hilal Baydarov con l’inspiegabile placet di quel genio di Carlos Reygadas); alcuni invece belli. Abbiamo assistito a un tappeto rosso raffreddato (un ossimoro), ma dimostrato che siamo vivi e che, caduti per primi, siamo riusciti a ripartire con l’arte. Peccato il palmares.