La logica della democrazia

“La matematica è politica” assicura Chiara Valerio nel suo ultimo saggio.
Una politologa riflette, senza pregiudizi, sulla sua tesi. E va in cerca delle analogie tra rigore scientifico e arte del possibile. Il discorso pubblico deve tenere conto del sistema di regole condiviso e accettato. Solo così sarà possibile comprendersi, come fanno i matematici tra di loro.
Ivan Canu
Leggi il titolo “La matematica è politica” (Einaudi) e la reazione è di diffidenza. Tanto più se sei insofferente a quelle operazioni che fanno ballare i numeri per fargli dire qualunque cosa o a quelle modellizzazioni che spogliano i fenomeni umani della loro complessità. Così cominci la lettura del breve e intenso libro di Chiara Valerio, a lungo matematica e poi tante altre cose di una vita da intellettuale, ben fornita di pre-giudizi. E la termini con la voglia di confrontarti, perché il libro solleva questioni radicali, che partendo dalla matematica vanno a toccare il cuore del modo in cui si sta in democrazia, cittadini e governanti. Perché la politica della quale parla Valerio è la politica democratica e la “sua” matematica vuole essere strumento di educazione alla democrazia. Scrivo “sua” non perché ci fornisca una visione soggettiva della matematica, ma perché ci conduce a scoprire tutto ciò che di essa va oltre quell’idea di certezza che spesso l’accompagna. Tuttavia, non per restituirci un pensiero debole. Tutt’altro! Per restituirci, piuttosto, un pensiero “forte”, fatto di punti fermi, però “relativi” nella misura in cui i punti fermi sono tali all’interno di ogni definito universo di senso (e di regole), dunque di un contesto, come il quinto postulato di Euclide (al quale Valerio dedica pagine interessanti, fatte di matematica e di storia), secondo il quale data una retta e un punto, per quel punto potrà passare una e una sola parallela, postulato “vero” nell’universo della geometria euclidea, non in altre geometrie. Verità, l’ossessione di Valerio, che ne ha sempre provato un certo fastidio, e relatività, costituiscono dunque il cuore – così mi è parso di cogliere, soprattutto dalla nostra conversazione – dell’idea proposta della matematica come strumento educativo in virtù della sua analogia con la politica democratica.
Perché? Perché, mi spiega, sia nella politica sia nella matematica vi è contraddizione tra autorità e regole, poiché la matematica è fondata su una serie di regole, che vengono di volta in volta ridiscusse, che disegnano un mondo, e quindi una realtà. Le regole come assunti non possono che essere poste autoritativamente, ma devono essere accettate, e conosciute, da chi intende discorrere dentro a quel “sistema”. Inoltre, le altre regole, che dagli assunti discendono, non possono che essere condivise dagli “attori” che agiscono al suo interno, perché aderenti alle premesse e a ciò che ne consegue. Dunque, date le premesse, nessuno può “imporre” autoritativamente propri percorsi, tutti devono stare alle regole comprese, conosciute, accettate e sempre sottoponibili a comune ridiscussione. Ecco l’analogia con la democrazia, e con il costituzionalismo, fondamento della politica liberal-democratica. E mentre Chiara Valerio parla, io penso alla Costituzione americana e ai Padri fondatori, al loro modo di procedere, non solo, ma anche, deduttivo, ovvero implicante la deduzione di una serie di comportamenti dall’affermazione di determinate regole, discusse non solo a Filadelfia, ma nelle diverse ex-colonie, attraverso la diffusione dei Federalist papers.
Tuttavia, l’idea del ragionamento logico-deduttivo, se applicata alla politica ci rimanda anche ad altre realtà, all’ideologia totalitaria che i maggiori studiosi del fenomeno, da Hannah Arendt a Carl J. Friedrich, vedono come “logica di una idea”: un insieme di assunti dai quali fare discendere logicamente conseguenze e quindi azioni, che alla fine del percorso possono portare ai campi di sterminio. Dunque? La matematica, i suoi presupposti e il suo “andamento” logico deduttivo possono fungere da analogia anche a quel tipo di politica? No, è stata la risposta, perché «le premesse matematiche devono in qualche modo essere verificate, si va avanti in base a quelle premesse e poi eventualmente le si cambia. E così, come nella politica, tu poni delle premesse, poi se queste schiacciano l’individuo, allora torni indietro e le cambi». Ho riflettuto molto su questo, anche dopo la nostra conversazione. Perché il fatto che l’individuo sia schiacciato dovrebbe essere una confutazione di una premessa totalitaria come la superiorità di una razza o l’inevitabilità dell’affermazione di una classe? O di una premessa autoritaria come la necessità della fine della libertà in nome dell’ordine? Lo sarebbe se la premessa fosse che tutti gli uomini nascono liberi ed eguali, dalla quale far discendere che essendo i cittadini uomini, questi non possono essere “schiacciati”. Questa, però, è una premessa della democrazia. Ma ho voluto seguire Chiara Valerio nel ragionamento che mi ha proposto: le premesse totalitarie sono false (e nel libro mette in guardia dalle premesse false dalle quali può derivare qualunque cosa). Ma la loro natura falsa, o contraddittoria, riposa nella loro stessa enunciazione o piuttosto nella contraddizione con il mondo reale? E nel fatto che sono state costruite prescindendo completamente dalla realtà dell’uomo e della natura umana, dal concreto svolgersi della storia? Continuo a rifletterci, ma propendo per la seconda risposta. E per questo vedo qui un limite, che abbiamo discusso con Chiara Valerio, nell’analogia tra matematica e politica: la prima opera dentro a un proprio sistema di regole, che si può ridiscutere sì, ma che non riceve i propri feedback dal mondo concreto. Nel caso dello studio della politica, così come della politica come attività, è l’universo empirico che può confortare o confutare ipotesi o previsioni. La comprensione dell’agire politico e l’agire politicamente sono intraprese che devono confrontarsi con la natura multiforme della realtà, il che richiede di andare ben oltre il pensiero logico-deduttivo.
Ciò non esclude però né la forza dell’analogia, pur presupponendone la natura parziale, né il valore educativo che Valerio attribuisce alla matematica e al pensiero logico-deduttivo. Questo perché, come lei mi ripete più volte, la democrazia opera innanzitutto attraverso regole condivise che discendono da una certa visione dell’uomo e della società. Se, dunque, riconosciamo gli assiomi che sono alla base del vivere democratico, dobbiamo agire in coerenza con essi. Dobbiamo seguire alcune regole. E farlo in modo esplicito e trasparente. Il discorso pubblico ne deve tenere conto, non può svilupparsi prescindendo dalle premesse, le ragioni e le pretese degli uni e degli altri devono essere coerenti col sistema di regole accettato in quel momento. Solo così sarà possibile comprendersi reciprocamente, come si comprendono i matematici grazie al loro linguaggio condiviso. E i governanti devono parlare e agire secondo quelle regole. Ciò significa non solo che devono attenersi alle regole che consentono loro di prendere decisioni autoritative per la collettività, ma anche “spiegare” perché le loro azioni sono coerenti con il benessere individuale e collettivo e i diritti della persona che sono posti alla base del sistema democratico. Quelle azioni devono essere comprese e condivise dentro a un linguaggio comune reso esplicito, che rende possibile condivisione e confronto, come, appunto, in matematica. L’atto autoritativo di per sé non è “vero” è solo una imposizione, se non viene riempito di un discorso logico-razionale condivisibile. Ciò è tanto più vero, precisa Valerio, quando quelle decisioni limitano alcuni diritti, normalmente riconosciuti, anche se per un periodo limitato. Quando sono “eccezionali”. Come è avvenuto nel nostro e in altri Paesi – e così siamo passate alla politica di oggi – con il lockdown e le restrizioni alle libertà. Tutto, ad esempio nel caso italiano, ma non solo, è avvenuto in conformità alle regole e illustrando ai cittadini in modo trasparente le premesse delle decisioni? Qui ci siamo trovate entrambe a dubitarne molto, la mia interlocutrice ne tratta nel suo libro. E se i nostri dubbi sono fondati, allora ciò significa che si è, almeno talvolta, proceduto attraverso la mera autorità (magari sostenuta dalla persuasione, da narrazioni che hanno solo simulato delle spiegazioni), non con l’autorevolezza dell’agire dotato di senso. E gli esempi in negativo potrebbero moltiplicarsi.
Ecco allora che la capacità di comprendere logicità e illogicità di parole e azioni diviene un’arma critica cruciale per il cittadino. Per Chiara Valerio il pensiero logico-matematico se acquisito sarebbe anche un importante strumento per i governanti, per informare positivamente la loro azione. Qualche dubbio su questo lo mantengo, perché penso al ruolo che pregiudizi e attitudini psicologiche possono giocare e credo piuttosto in una robusta formazione etica e nella vocazione. Ma possiamo escludere che anche una forma mentis logica, che la consapevolezza dell’esistenza dei punti vista, del contesto di regole entro il quale si opera, delle conseguenze, siano requisiti importanti? Certamente no. Sono necessari, anche se non sufficienti. E non solo sono necessari per chi esercita autorità in un contesto democratico, ma hanno senso essenzialmente in un contesto democratico. Perché nei contesti non democratici, se possiamo interrogarci sulla contraddittorietà o meno delle loro premesse, sappiamo della contraddittorietà del modo in cui sono legittimate le decisioni autoritative, in un contesto di regole mutevoli, mera espressione della volontà di chi esercita il potere. Per questo l’analogia della logica matematica con la politica ha un senso solo se si tratta di politica democratica.
Ma queste attitudini si acquisiscono sono con lo studio della matematica? Ho fatto osservare a Chiara Valerio come quelle consapevolezze si possano acquisire attraverso altri percorsi. Ma la matematica la apprendiamo sin da bambini, è stata la risposta. Ho alzato le mani! Ha ragione. Come ha ragione quando afferma che lo studio della matematica, e in generale lo studio, richiede tempo e in fondo è una ribellione alla dittatura dell’urgenza che ormai informa le nostre società e il modo in cui sono governate. E qui potrebbe aprirsi un’altra riflessione, alla scoperta di un altro tra i tanti fili che si intrecciano ne «La matematica è politica». Qui in fondo ne ho seguito uno solo, sacrificando la ricchezza del libro e della chiacchierata, inevitabilmente. Per questo il testo di Chiara Valerio va letto, per scoprire tutti i fili, i loro intrecci e cogliere l’occasione di riflettere sulla democrazia in un modo non scontato. Nel mio caso alla diffidenza è subentrata la curiosità e il piacere che si prova di fronte alle provocazioni che aprono a nuovi … punti di vista.
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