Un gioco politico spregiudicato

Il possibile secondo governo Conte, fondato sulla maggioranza Pd-5S, sarà di legislatura solo se riuscirà a tirare avanti e a evitare trabocchetti nei prossimi tre anni. Altrimenti farà la fine del precedente

Nelle intenzioni di tutti, soprattutto del presidente della Repubblica, doveva essere un governo “di legislatura” fondato su intese concrete, anzi su un “accordo dettagliatissimo” (Romano Prodi). Qualcuno ha evocato la Germania, dove peraltro il patto sul programma tra democristiani e socialdemocratici ha richiesto oltre due mesi di trattative serrate. Ora sappiamo che il possibile secondo governo Conte, fondato sulla maggioranza Pd-5S, sarà di legislatura solo se riuscirà a tirare avanti e a evitare trabocchetti nei prossimi tre anni; altrimenti farà la fine del precedente, come Conte sa bene, visto che anche quattordici mesi fa si promettevano cinque anni senza scossoni.

Di sicuro nessuno ha perso il sonno per definire il programma dell’esecutivo nascituro: ci si è concentrati invece sui nomi, come sempre accade quando il vero nodo riguarda la spartizione del potere. E sui nomi, chissà, il negoziato potrebbe ancora affondare. Considerando che i Cinque Stelle sono alquanto inaffidabili, oltre che mossi da logiche opache, forse non è stato saggio da parte di Zingaretti far cadere il veto all’ipotesi Conte prima di definire nero su bianco la squadra dei ministri e le relative poltrone. Ci si è adagiati nella rassicurazione grillina secondo la quale, in cambio del “sì” al premier uscente e rientrante, i ministeri importanti sarebbero stati appannaggio del Pd. A lato pratico non sembra che sia così e infatti l’unico negoziato che conta, quello sui ministri, è diventato il più insidioso.

Non è il miglior passo d’inizio per un’avventura in cui è chiara la mancanza di passione civile. Un gioco politico spregiudicato, la cui posta in palio è tuttavia molto ambiziosa — la decapitazione del primo governo populista dell’Europa occidentale — , si svolge in modo ordinario e banale, esponendo al giudizio perplesso degli italiani la solita rissa sui posti a tavola. Così è ancora più evidente l’unica ragione per cui nasce la bizzarra alleanza: bloccare Salvini, smussare l’arma elettorale che il leghista ha tentato goffamente d’impugnare, costringerlo all’opposizione e accentuarne con ogni mezzo il declino. Fidando nella sua difficoltà di elaborare ulteriori proposte dopo i cavalli di battaglia dell’immigrazione clandestina (un successo di opinione pubblica), della sicurezza (due decreti destinati a essere smantellati) e della “flat tax” (un fallimento). Ne deriva che l’inedita maggioranza ha tutta la convenienza a durare nel tempo. Sempre in chiave anti-Salvini c’è da consolidare il rapporto con la nuova commissione Von der Leyen, definire una legge elettorale proporzionale dopo il taglio dei parlamentari e predisporre il terreno per l’elezione del capo dello Stato, nel ‘22, tenendo la Lega fuori dai giochi.

Per ottenere questi risultati il Pd rischia oggi di accelerare il suo tramonto politico, pur addolcito da incarichi ministeriali di prima grandezza. Non a caso l’anziano Emanuele Macaluso ha battuto per giorni sullo stesso chiodo: «Non abbiate paura del popolo… la destra non si batte con una manovra di palazzo». Ovviamente nessuno lo ha ascoltato e oggi il Pd rischia di logorarsi nell’abbraccio con una forza illiberale come il M5S, senza nemmeno esser certo che stare all’opposizione faccia dimagrire la Lega. Del resto, anche i Cinque Stelle, contestati dai loro elettori e alle prese con il referendum Rousseau, hanno poco da stare tranquilli. In sostanza è una strana partita nella quale il sistema politico si consuma e i perdenti sono numerosi e ben individuati.

Quanto ai vincenti, sono probabilmente solo due. Uno, Matteo Renzi, potrebbe non aver più bisogno di crearsi un partitino personale, visto come manovra il Pd. L’altro, l’avvocato del popolo, è l’autore di una straordinaria capriola politica. Non è nemmeno trasformismo, pratica comune in una democrazia parlamentare. Se il paragone non fosse assurdo per la statura del personaggio evocato, occorrerebbe risalire a Talleyrand che fu stretto collaboratore di Napoleone e poi riuscì con la restaurazione ad accreditarsi presso Luigi XVIII, fino a diventarne il primo ministro per qualche tempo. Ma è un paragone davvero eccessivo per Conte, almeno fino al prossimo salto mortale.

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