Il 31 ottobre del 1959 descrive ad André Breton un sogno: “Vagavo senza meta per le strade di una città, nella notte. Attirato da una luce, entravo in una casa la cui porta era aperta. Salivo le scale e mi trovavo dinanzi a un muro nero coperto di segni che sembravano appartenere ad alfabeti antichissimi”. Sembra l’esordio di un racconto di Nathaniel Hawthorne o di Lovecraft; l’anno prima il sognatore, Juan Eduardo Cirlot, aveva pubblicato la sua opera più importante – poi costantemente aggiustata, aggiornata, rettificata – il Diccionario de símbolos tradicionales. Il libro è dedicato “al dottor Marius Schneider”, il grande musicologo che lo aveva iniziato all’arte di decrittare i simboli; tuttavia la pulsione originaria, la speleologia tra gli invisibili, era scattata frequentando Breton e i surrealisti.

Nato a Barcellona nel 1916, ventenne lottò per la Repubblica, nel ’40 fu mobilitato dai franchisti, tre anni dopo era al Banco Hispanoamericano. Fu avanguardista per reazione, Cirlot: alternava la lettura di codici antichi, di sapienze incenerite, ai poemi pionieristici del proprio tempo. Aveva un volto dispari, taurino, dalle labbra carnose e lo sguardo stupefatto: si diede all’editoria, ai gruppi esoterici. Coltivò una vasta collezione di spade. Il suo Dizionario dei simboli, opera di leggiadra bellezza, istoriata nella giada, nasce da una pratica più che da un mero studio libresco, dall’“incontro con l’immagine poetica” e dal “contatto con l’arte contemporanea”: sostanzialmente, dal contagio con tutto ciò che sfugge e grandina segreti. Perfino la carne, emblema dell’enigma, è un simbolo; così scrive, a Breton:

“Un giorno ho avuto fra le mani un corpo di donna del quale mi ricordo appena, eppure il pallore lunare della gamba continua a ossessionarmi, e la semitrasparenza della calza di seta che permetteva di vedere la qualità della carne e l’ombra vaga di una peluria finissima, come l’acqua lascia vedere il fondo del mare, le alghe e i ricci. Capii che quella trasparenza grigia, quel velo o vetro appannato, era il principio del vero mistero, che non sta né nel vedere né nell’ignorare, ma nell’intravedere”.

Amico di Antoni Tàpies, ammirato da Herbert Read, Juan Eduardo Cirlot morì nel 1973. Scrisse diverse poesie, nell’orbita dei suoi studi, di diverso genere, egualmente orfiche, A Mitra (“Dio dalle collane planetarie/ con donne di pietra e pensiero/ ululate di calce che si muove/ con rilievi e rossi santuari”), A René Magritte (“La carne è specchio e stella/ l’uomo la contempla con i pugnali/ eppure la rosa corre mentre cresce”), A Gaudí (“Tuono di carne divenuto roccia/ gesto di invocazione incarnata;/ anziano di cristallo il cui sguardo/ sembra un girasole dalla doppia bocca”). Il Dizionario dei simboli – libro di aurorale candore, come i reperti di Robert Graves – è transitato in Italia per editori ‘di genere’, Siad (1985), Eco (1996), Armenia (2004):ora trova una collocazione nobile nel catalogo Adelphi (per la traduzione di Maria Nicola e con una postfazione di Victoria Cirlot, figlia di Juan Eduardo).

La tentazione, sfogliando il Dizionario, è quello di avere, avvolto in libro, un universo, di poter ambire a un qualche potere. Dell’Edera sappiamo che “I sacerdoti eunuchi imitavano le foglie nei loro tatuaggi” ed “è simbolo femminile di forza che necessita di protezione”; che il Piede è “simbolo ambivalente… nella mitologia di molti popoli i raggi del sole sono paragonati ai piedi”; che il Calice “è la forma trascendente del vaso” e l’Aquario “non solo significa la fine di un universo formale, ma anche il termine di qualunque ciclo, per distruzione della forza di coesione che ne teneva insieme gli elementi”. Meraviglioso volteggiare come viandanti cosmici tra Cherubini “che si ergono sulla porta dei templi e dei palazzi assiri” e Guerrieri, “forze latenti della personalità che si dispongono a prestare aiuto alla coscienza”, cavalcando il Makara, “mostro marino mitico dell’India, in parte pesce e in parte coccodrillo”, mentre sguainiamo la Spada, “un simbolo di congiunzione”, ma anche “di distruzione fisica e di risolutezza spirituale”.

Insomma, il libro di Cirlot – dal repertorio bibliografico affascinante, che fonde alchimia e archeologia, angelologia, cronaca mistica e preistoria – è un romanzo, un grande gioco, una Wunderkammer. Eppure, il simbolo – concentrazione quasi increata di significati – non si risolve in enciclopedie: è valido proprio perché inspiegabile, cioè in movimento. L’iniziazione non passa per un dizionario, che nasce, piuttosto, per certificare la nostra inesorabile distanza dal mondo simbolico. Il dizionario non è una sutura, una cesura, piuttosto: sancisce la cosa morta, un cadavere, che ora si può ‘studiare’ fin nei minimi rilievi. Siamo passati dal regno del simbolo a quello del marchio, un ideogramma mortale che maneggia i poteri vili, bassi: induce a comprare e non più a comprendere. Nei Lacci non vediamo più “la dipendenza nel sistema gerarchico feudale, sancita dal giuramento d’onore”, non scorgiamo la decorazione da cui spesso sovviene il muso di un mostro, non rintracciamo la “corda d’argento” o il “filo d’Arianna” né il “legame interiore”, mistico: eppure, nonostante la nostra cecità il simbolo continua ad agire, la sua forza non dipende dalla nostra insipienza. Abitare in una foresta di simboli, a volte, significa essere spiritualmente deforestati, un deserto privo di morgane. I simboli, però – funesti o benefici – continuano a condizionarci: perché non guardiamo le stelle, approssimandoci allo zodiaco, perché non leggiamo le foglie, perché non investighiamo le nuvole, “assimilate ai profeti, giacché le profezie sono un’acqua occulta di origine celeste, che dona fertilità”? Stiamo al mondo, ignorandolo.

Juan Eduardo Cirlot ammette, nella sua ricerca tra gli occulti, di aver trovato conforto in una frase di Gaston Bachelard. “I veri interessi potenti sono gli interessi chimerici”. Che senso ha vivere se non si inseguono le chimere? La Chimera, leggo nel Dizionario, “è un simbolo di aberrazione complessa”. Benvenuti nel mostruoso.