Tutte le confessioni di Simenon

La scrittura finalizzata al racconto dei propri peccati Ecco perché il padre di Maigret ci ha conquistati
di Maurizio Ferraris
Scriveva nel 1932 Robert Brasillach che Simenon nei suoi polizieschi scopre l’assassino perché bisogna scoprirlo, mentre quello che gli interessa è creare l’atmosfera. No, non è così. Quello che gli interessa è confessarsi, e questo si vede meglio che mai in questo libro del 1968, La mano , da poco uscito per Adelphi, che si apre con la confessione di un crimine non convenzionale (uscito per cercare un amico disperso in una tempesta di neve si rifugia nel fienile e lo lascia morire) e si chiude con la confessione di un crimine convenzionalissimo in cui Donald, l’io narrante, uccide la moglie e telefona alla polizia per denunciarsi. Tra un evento e l’altro c’è la storia il protagonista diviso fra due donne, sua moglie, l’impeccabile e sadica Isabel, e la vedova di Ray, l’amico che ha lasciato morire, la seducente e imperscrutabile Mona (nomen femen, verrebbe da dire, visto che, ormai connivente con la friulana Teresa Sburelin, è possibilissimo che Simenon conoscesse il significato di questa parola del nord est che getta un ponte tra la luna, Mond, e Monna Lisa).
Tra un evento e l’altro significa anche tra un peccato e l’altro. Simenon è stato chierichetto, e non se l’è dimenticato. Il cinismo che ostenta copre malamente un abisso pascaliano, lo sgomento di una dinamica di delitto e castigo che segue un decorso alcol-sesso-suicidio ripetuto in innumerevoli versioni dello stesso racconto che è appunto una confessione, dunque richiede una colpa da espiare. Niccolò Tommaseo è autore di una immortale pagina di diario «esco a cercare un prete per confessarmi. Non lo trovo. Pecco». All’opposto, si direbbe, Simenon pecca per confessarsi, come un criminale seriale. La leggerezza della narrazione e della enumerazione degli incontri sessuali che troviamo, ad esempio, in La vie sexuelle de Catherine M. (Seuil 2001), cioè della critica d’arte Catherine Millet, è del tutto impensabile in Simenon, mentre è pensabilissimo fare di Catherine Millet una delle donne immorali delle confessioni di Simenon. E il gioco di attrazione e repulsione dei quattro protagonisti (Ray, il morto, non esce di scena ma continua a giocare la sua parte con l’ostinazione di un fantasma) non ha niente della fatalità chimica che governa Le affinità elettive di Goethe, e racconta invece la storia di un peccato senza espiazione. Sarà per questo che Simenon è piaciuto tanto a Gide, che adorava i chierichetti che gli rendevano più facile la parte dell’immoralista, e che si spingerà sino a imporre al povero Simenon la corvée di un’opera pseudo-proustiana, Pedigree , completamente fuori del suo registro perché appunto è memoria e non confessione.
Ora, è poco ma sicuro, non ci si può confessare al posto di un altro. Mentre leggevo, mi è stato difficile non pensare che la storia d’amore con Mona, che si ritrova in altri romanzi che, come questo, sono ambientati nel nord-est degli Stati Uniti, dove prudentemente Simenon si era ritirato per qualche anno dopo il 1944 per sottrarsi ai guai dell’epurazione, descrive la passione tra Simenon e la seconda moglie, la canadese Denyse Ouimet. Non mi sentirei nemmeno di escludere che l’impeccabile e implacabile Isabel e l’arrendevole e fatale Mona rappresentino la fase conclusiva e quella iniziale della storia con Denyse. Pochi anni dopo questo romanzo, nel 1973, morta la madre con cui non aveva mai parlato e a cui forse aveva indirizzato tutti i suoi libri, Simenon concluderà che la sua vena si è esaurita. Però per dieci anni continuerà a dettare le proprie confessioni al registratore, in ventun volumi, sino al suicidio, nel 1979, della figlia Marie-Jo. Ed è rivolgendosi a lei, alle sue ceneri sparse nel giardino della nuova e ultima casa di Losanna, che nel 1980 scriverà, su quaderni di scuola, le fluviali Memorie intime , che saranno la sua ultima opera.
Ma la sincerità delle autobiografie è sempre dubbia e me- scolata con motivi apologetici, diversamente da ciò che avviene nei romanzi, che talvolta, come paradigmaticamente nella Lettera al mio giudice , prendono anche letterariamente la forma di una confessione. Il testimone autobiografico, quando parla in prima persona, tocca vertici di ipocrisia nel presentarsi come un padre esemplare, con la stessa insincerità in cui, nella propria autobiografia, Lorenzo Da Ponte, il partecipe librettista del Don Giovanni , il redattore del catalogo di Leporello, vuole presentarsi come un cristiano devoto e timorato. E si spinge a rimozioni abissali, come il non parlare mai del fratello minore, Christian, invischiato nell’estremismo rexista negli anni Trenta, collaborazionista e assassino di partigiani, poi transfuga nella Legione Straniera e morto in Indocina (su questa figura esiste il romanzo di Patrick Roegiers, L’autre Simenon , Grasset 2015). Lo ha visto molto bene in Les 300 vies de Simenon (Claire Martin du Gard Éditeur 1990) la per me altrimenti ignota Marie- Paule Boutry, che propone una diligente schedatura dell’immane corpus di Simenon guidata dalla intuizione che in ognuno di quei libri ci fosse un pezzo della vita dell’autore, il che da una parte è banale («Madame Bovary c’est moi», per dirla con Flaubert) ma ci spiega la continuità quasi da sogno, e i processi additivi, che genera la lettura di queste confessioni che prendono l’estensione delle Mille e una notte .
Ora, come avveniva probabilmente in Sherazade, e sicuramente nelle lettrici delle rubriche femminili di una volta che attribuivano i loro problemi a “un’amica”, la confessione ha luogo per interposta persona, anzi, per interposti personaggi, proprio come nella recita organizzata da Amleto nel castello di Elsinore (poi imitato da Maigret nei confronti che concludono le indagini al Quai des Orfèvres) per svelare i peccati di famiglia, e che in Simenon superano gli undicimila. L’insistenza sulla confessione è importante, e spiega appunto perché abbia creato un investigatore che, a differenza di Dupin, non ragiona ma fuma la pipa e beve una birra, poi un pastis, poi un calvados, alla ricerca di una illuminazione. Che cosa cercano Simenon e Maigret? La stessa cosa che cercava Agostino nelle Confessioni , la verità, ma, proprio come in Agostino, e in Nietzsche e in Rousseau, per completare questa galleria di egotisti, la verità deve aver luogo attraverso la scrittura. Perché, come dice Agostino quando, nel decimo libro delle Confessioni , fa i conti con la futilità del confessarsi a Dio, che sa tutto, la confessione è un esercizio che non ha luogo solo nel cuore, in dialogo con Dio, ma anche per iscritto, di fronte a molti testimoni. Se poi la scrittura confessionale è anche retribuita, consentendo un treno di vita favoloso e disperato, come avvenne in Simenon (mezzo miliardo di libri venduti in tutto il mondo secondo una vecchia stima dell’Unesco, senza parlare dei film e della televisione), meglio ancora.
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