Tutta «culpa» del climate change

La caduta dell’Impero Romano. Kyle Harper rilegge epigrafi, testi e reperti archeologici avvalorando la tesi che le cause del crollo furono le pandemie e il cambiamento climatico, che impattò sulla produzione di cibo

Gli studi umanistici assumono che le persone protagoniste o coinvolte in qualche cambiamento storico, siano testimoni affidabili e causalmente implicati nelle trasformazioni. In tal senso, sono stati e rimangono refrattari all’idea che a decidere il destino umano siano solo e soltanto le forze della natura. Tradizionalmente la storia diffonde pregiudizi e credenze false sul passato, cioè narrazioni psicologicamente strumentali, più che prove su perché e come gli uomini causarono i fatti storici, e cosa possiamo imparare.

Le cose stanno cambiando e il libro di Kyle Harper è, al momento, tra le migliori testimonianze. Soprattutto in quanto riguarda la vicenda forse più studiata, discussa e usata come argomento retorico/esemplificativo, cioè il crollo dell’Impero Romano. Dispiegando dati empirici, e spiegazioni basate su studi riguardanti cambiamenti climatici dovuti a cicli solari o ed eruzioni vulcaniche e l’ecologia molecolare degli agenti infettivi, Harper rilegge epigrafi, testi e reperti archeologici in modi più coerenti, e sensati, ovvero meno funzionali a pregiudizi storiografici.

Sono almeno una decina le ipotesi sulla causa o sulle cause del crollo dell’Impero Romano, che vanno dall’instabilità politica, agli errori degli imperatori, alle cosiddette invasioni barbariche, alla diffusione del cristianesimo, etc. Harper dimostra che le vere cause furono il cambiamento climatico, che impattò sulla produzione di cibo, e le pandemie. Non è una tesi sorprendente: si sapeva della presenza di queste condizioni negli ultimi secoli dell’Impero. Ma gli storici ragionavamo a partire dal «tacito presupposto che l’ambiente fosse un contesto stabile e inerte alla storia». Imperatori e barbari, senatori e generali, soldati e schiavi furono certamente attori nella rappresentazione del destino di Roma, ma non ebbero mai il controllo di alcunché. A decidere furono «batteri e virus, vulcani e cicli solari».

L’Impero Romano progredì demograficamente ed economicamente fino al 150 d.C., grazie a un optimum climatico iniziato intorno al 200 a.C. Una fase di breve durata, quasi perfetta, con un clima caldo e umido che consentiva un ciclo economico virtuoso. I raccolti erano abbondanti e sempre più terreni messi a coltura. La popolazione poteva crescere e sfamarsi. L’estensione e la pacificazione delle rotte di navigazione e del sistema viario consentì un incremento del commercio che fece aumentare i redditi reali, tenendo in scacco la trappola malthusiana. L’intensificazione degli scambi commerciali, con il flusso verso Roma di persone e animali esotici, e l’addensarsi nella città di un milione di abitanti, in condizioni igieniche precarie, generava anche l’opportunità per la diffusione di nuovi e aggressivi agenti infettivi.

L’esplosione di aggressività degli agenti infettivi coincise con l’inizio, intorno al 150 d.C. di una fase climatica di «transizione», che arrivò fino al 450, durante la quale si verificarono siccità, raffreddamenti, aridità e interruzioni nelle inondazioni del Nilo. I cristiani/pagani (a scelta) erano messi sotto accusa. Ma le cause furono i sistemi meteorologici nell’Atlantico, El Nino, l’effetto monsonico e l’attività solare. Intorno al 450 arrivò una piccola glaciazione, che proseguì fino all’ottavo secolo, con diversi anni senza stagione estiva, in coincidenza di un minimo di attività solare e un massimo di attività vulcanica. Le temperature crollarono e le inondazioni aumentarono. La dea Fortuna aveva voltato le spalle a Roma.

La nuova ecologia scatenò gli agenti patogeni, inizialmente virus. La prima pestilenza romana, conosciuta come peste Antonina, ebbe luogo dal 165 al 180 circa. Fu causata probabilmente dal vaiolo (comunque da un virus), e uccise almeno 7 milioni di persone, dando inizio al degrado dell’Impero. Ne seguì un grave inflazione e un turnover degli imperatori più frequente. Nella seconda metà del terzo secolo, durante un picco di riscaldamento, esplodeva la peste di Cipriano, con le caratteristiche di una febbre emorragica, ovvero poteva essere dovuta a un virus del tipo Ebola che causava un’elevatissima mortalità.

Siccità e temperature più rigide spinsero nel frattempo i popoli del nord-est a spostarsi verso sud in quello che era diventato l’Impero Romano d’Occidente. Le invasioni erano solo migrazioni, cioè movimenti di uomini, donne e bambini in cerca di risorse per sopravvivere. I Goti di Alarico conquistarono Roma nel 410. Poi giunsero gli Unni che travolsero i soldati romani, e forse furono fermati più che dal crocifisso di papa Leone Magno, proprio da una infezione, cioè dalla paura della malaria che imperversava intorno a Roma.

Il colpo finale lo diede l’arrivo a Costantinopoli, capitale dell’Impero Roma d’Oriente, nel 541, della vera pesta, causata da Yersinia pestis, e nota come peste di Giustiniano. Il raffreddamento climatico influenzò i movimenti e i comportamenti del ratto nero, ospite finale del parassita, e forse aumentò la vicinanza del roditore (quindi della pulce vettrice) con l’uomo, per cui il batterio, che non usa l’uomo come ospite e per questo lo può eliminare rapidamente, si trovò nelle condizioni di flagellare con otto ondate le popolazioni in Oriente fino a metà dell’ottavo secolo. Il genoma di quel batterio è stato trovato nei resti umani e sequenziato, per cui possiamo fare ipotesi credibili sulle dinamiche epidemiologiche di quell’epidemia.

La peste giunse ovunque e uccise circa il 60% della popolazione. Intanto la regione mediterranea pativa inondazioni, inverni rigidi ed estati fredde e improduttive. È difficile immaginare istituzioni civiche in grado di resistere a quel livello di mortalità e degrado ecologico. I romani/europei disorganizzati e malati soccombevano all’Islam, mentre i contenuti e valori della cultura classica migravano con gli intellettuali verso oriente.

Harper non si sottrae a riflettere sul significato che la nuova spiegazione del crollo dell’Impero Romano ha per noi. Viviamo il momento in assoluto di maggior benessere della storia, ma continuiamo a non avere alcun controllo sui meccanismi del clima o sull’evoluzione degli agenti infettivi. Insomma, stiamo dando per scontato, come i romani, che l’ambiente alla fine ci sarà favorevole. Ma potremmo avere qualche sgradita sorpresa.

 

Il destino di Roma. Clima,

epidemie e la fine di un Impero

Kyle Harper

Einaudi, Torino, pagg. 508, € 34

 

Gilberto Corbellini

Catastrofe Thomas Cole, «La distruzione dell’Impero romano», (1836) Historical Society di New York