Turismo, ci batte pure la norvegia.

Sedici lingue di benvenuto ai visitatori nel portale turistico della Norvegia e solo due, italiano e inglese, in quello della Sicilia. Basta questo confronto per inchiodare la classe politica isolana, sinistra e destra, alle responsabilità del fallimento di quella che nel bla-bla-bla quotidiano viene spacciata come la Straordinaria Opportunità del Turismo. È quasi tutto il Sud, purtroppo, a faticare. A dispetto della stupefacente ricchezza della sua offerta. Con 18 siti Unesco talora condivisi con altre regioni e spesso multipli sparsi sul territorio più quattro «immateriali» (le grandi macchine a spalla della devozione popolare, lo zibibbo di Pantelleria, il canto tenore sardo, i Pupi) più i vini e una gastronomia d’eccellenza più tre quarti delle coste italiane spesso bellissime e larga parte delle isole, il Mezzogiorno attira in totale, secondo dati Istat-Regione Veneto, solo un ottavo degli «arrivi» stranieri e un settimo di quanto spendono. Per capirci: i 3 miliardi e 238 milioni finiti al Sud sono meno di quanti sono stati lasciati dagli ospiti esteri nel solo Veneto e poco più che nella sola Toscana. Dice l’Osservatorio Confesercenti, tirandoci un po’ su di morale, che la stagione va bene e che, tra aprile e giugno, si registra un aumento di 8.684 alberghi, bar e ristoranti rispetto allo stesso periodo del 2014: più 2%. E a crescere più rapidamente sono il Sud e le Isole: più 2,5% contro l’1,8% del Centro-Nord. Evviva. Ma in quale contesto? Negli anni del più grande boom turistico di tutti i tempi, con un numero di viaggiatori quasi triplicati dal 1990 ad oggi (da 440 milioni a un miliardo e 138 milioni nel 2014) e una crescita nel 2014 del 4,4% con un aumento nei Paesi del Mediterraneo, secondo World Tourism Barometer, del 6,9%. Il triplo abbondante della media italiana. Tanto è vero che, pur restando quinti per arrivi internazionali (anni fa eravamo primi), l’anno scorso siamo scesi al 7º posto per introiti dopo il sorpasso della Gran Bretagna: 45,9 miliardi di euro loro, 45,5 noi che l’anno prima eravamo davanti di quasi 3 miliardi. Proprio il Regno Unito, del resto, dimostra come, pur avendo un terzo dei nostri siti Unesco (meno del nostro solo Meridione) e meno sole e meno spiagge e meno eccellenze gastronomiche, si possa evidentemente sfruttare il «travel boom» meglio che da noi. Spiega l’ultimo rapporto World Travel & Tourism Council che se noi ricaviamo da Venezia e dai faraglioni di Capri, dalle Dolomiti e dai Fori Romani, indotto compreso, il 10,1% del Pil, loro ricavano il 10,5. E se da noi lavorano nel turismo indotto compreso (per capirci, incluso chi fabbrica gilet per i camerieri) l’11,4% degli occupati pari a 2 milioni e 553 mila persone, da loro sono il 12,7% per un totale di 4 milioni e 228 mila addetti. Poi, per carità, ci saranno anche contratti diversi. Ma lo stacco è nettissimo. E incredibilmente ignorato. Basti dire che pur occupando il solo turismo diretto dieci volte più addetti della chimica, la numero uno dei sindacalisti italiani Susanna Camusso non ne parla mai. Un titolo Ansa su 5.615 a lei dedicati. Turismo cosa? Il punto è che non basta soltanto offrire Pienza, Ostuni o Cremona. Magari con la supponenza e lo sgarbo di chi è convinto che «comunque qua devono passare!». Come dimostrano gli studi di Silvia Angeloni, ad esempio, il turista chiede anche altro: trasporti, rete web, prezzi competitivi, pulizia… Quali danni fa il rimbalzo sui social network di certi viaggi infernali e pericolosi di qualche visitatore sulla Circumvesuviana? Prendiamo l’ultimo Travel & Tourism Competitiveness Index . Due anni fa, con parametri evidentemente forzati, eravamo al 26º posto, oggi va meglio: siamo ottavi. Miglioriamo per «accesso ai servizi igienico-sanitari», «presenza delle principali compagnie di autonoleggio» o «copertura della rete mobile» (siamo primi!), per densità di medici (settimi) e «numero di siti naturali Unesco» (decimi). Ma restiamo al 133º posto per «competitività dei prezzi». E siamo scesi al 35º per l’uso di Internet e tecnologie, al 48º per la sicurezza, al 70º per «qualità delle infrastrutture del trasporto aereo», 123º per «efficacia del marketing nell’attrarre i turisti». E qui torniamo a quanto dicevamo. Perché certo, il Sud ha buone ragioni per chiedere fibre ottiche, treni più decorosi e più veloci (Matera, futura capitale europea della cultura, è ancora tagliata fuori dalla rete), collegamenti aerei, campagne di spot che vadano ad acchiappare turisti nel mondo. E i ritardi dei governi in questi anni, spesso indifferenti al turismo, han finito per pesare di più sul Mezzogiorno. Sì, una migliore gestione potrebbe distribuire al Sud carte importanti da giocare. L’ultima tabella Eurostat (dati 2013) sulle prime venti regioni turistiche dell’Ue mostra al 6° posto il Veneto, all’11º la Toscana, al 13º l’Emilia-Romagna, al 19° il Lazio, al 20° la provincia di Bolzano. Del Meridione, nonostante quel patrimonio di bellezza e di cultura, non ce n’è una. Scaricare tutto su Roma o i poteri forti, le banche padane o il perfido Nord, sarebbe insensato. Un alibi per le cattive coscienze. Soprattutto sul tema della «propaganda». Spiega l’ultimo rapporto del Centro studi MM-One su dati Eurostat che nel turismo la quota di fatturato generata dall’online è del 22% in Francia, del 26 in Spagna, 29 in Portogallo, 32 in Germania, 39 in Gran Bretagna e addirittura 88% in Irlanda. Noi, mogi mogi, siamo al 18%. Dieci punti sotto la media europea e staccatissimi ad esempio dalla Croazia, concorrente diretta sul turismo balneare, che ha il doppio (35%) della nostra quota. A farla corta: Renzi può anche mettere 12 miliardi sulla banda larga. Ma senza una svolta culturale rischiamo di restare indietro. Basti vedere, appunto, la distanza abissale nella visione del turismo di oggi e di domani che separa noi, soprattutto il nostro Mezzogiorno, dalla Norvegia. Il Paese scandinavo non sarebbe, sulla carta, votato al turismo. O almeno così appare a chi identifichi la vacanza con spiagge, sole, vino buono, mozzarella e pomodori. Se poi l’unità di misura fossero i siti Unesco sarebbero guai. Ne ha sette, l’ultimo dei quali il sito industriale Rjukan–Notodden. Per capirci: noi potremmo allungare ancora la lista con la cappella degli Scrovegni, Segesta, la fortezza di Palmanova, i portici di Bologna… Quello che hanno, però, a partire dai fiordi, lo sanno vendere. Il sito ufficiale visitnorway.com, come dicevamo è semplice, ma fatto bene e soprattutto si apre ai turisti di tutto il pianeta con portali in giapponese e in portoghese, polacco e russo per un totale di 16 lingue. La Norvegia ha la stessa popolazione della Sicilia (poco più di 5 milioni di abitanti), un territorio molto più grande, un patrimonio culturale molto più piccolo. Ma nel 2014 ha ricavato dal turismo, dice il rapporto WTTC, cinque miliardi di dollari. Poco meno di quanto incassa dagli stranieri l’intero Mezzogiorno. Quanto alla Sicilia, sul versante estero che rappresenta la metà circa dei propri ospiti, non arriva, compresi viaggi di lavoro, al miliardo e mezzo. Ma come si vendono, sul web, le regioni meridionali? Malissimo la Campania (italiano e inglese: fine), un disastro il Molise e la Calabria (solo italiano con un pasticcio di rinvii a paginette pdf), decorosamente la Sardegna (5), bene la Puglia e l’Abruzzo che svettano con sei lingue. Costo delle traduzioni? In tutto 70 mila euro, spiegano gli abruzzesi. Diecimila e poco più a lingua. E altri 70 mila di manutenzione annuale di una ventina di presenze importantissime sui social network . E la Sicilia? Lo dicevamo: italiano e inglese. Manca perfino il tedesco, nonostante siano tedeschi, nella scia di Goethe, gli stranieri che più amano l’isola. «Io ci provai a cambiare il sito», sospira Michela Stancheris, per qualche tempo assessore con Crocetta. «Mi spiegarono che dovevo rivolgermi a “Sicilia Servizi”. Un incubo. Alla fine uscii stremata». Chissà, forse mancavano i soldi. Franco Battiato denunciò poco dopo l’insediamento un buco all’assessorato di 90 milioni. Buco aperto ad esempio anche con un diluvio di concerti (a Comitini sbarcarono i Nuovi Angeli) in ogni contrada. Come potevano avere i soldi per un sito web decent e? Gian Antonio Stella