Il pubblico scatta in piedi, in un applauso sempre più convinto, frenetico: è un boato di gioia e riconoscenza, liberatorio, entusiasta. Commosso. Paolo Conte ha appena lasciato il palco, dopo avere suonato un’ultima volta il kazoo, strumento del quale è il massimo virtuoso mondiale, accompagnando la melodia avvolgente di Le chic et le charme. Richiamati a gran voce, lui e la band ritornano: il bis è una versione accelerata di Via con me, la sua canzone più iconica e riconosciuta. Altro boato, luci in sala, e il pubblico che non vuole andar via. A sipario ora chiuso, riappare il maestro, con tutto il suo carisma; meglio, il suo charme: naturale eleganza, fisico asciutto, abito scuro e maglia, che da anni ha sostituito camicia bianca e papillon; ringrazia. Un inchino. E un gesto eloquente: con una mano piatta tira una linea, in orizzontale, giusto sotto il mento. È finita qui.
Nel camerino dell’Olympia di Parigi, reduce da due giorni di ennesimo trionfo, l’avvocato ci riceve dopo l’esibizione. Facciamo pazienti la fila, siamo io e Fabio Gambaro, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Parigi che gli porge, doverosamente, gli omaggi delle istituzioni culturali italiane di Parigi. Strano, penso: quando si trova a Parigi, non c’è nessuna istituzione culturale italiana più alta e rappresentativa di Paolo Conte medesimo. Lui è la cultura italiana, e al massimo grado. Seduto su un divano, gli occhi azzurri ancora incantevoli e la parlata deliziosamente accentata di un piemontese venato di fumo, ci chiede – lui a noi… – se sia andato tutto bene. Non possiamo che stare al gioco e, fattogli constatare il generale impazzimento del pubblico, Conte se ne esce allora con una delle sue battute, segno di understatement sornione, ma anche di un certo compiacimento, più che autorizzato. «Non mi hanno ancora dimenticato» dice, e ridiamo tutti. Ribatto che nessuno di noi conoscerà quel momento anche perché i classici, quale lui è, sono semplicemente non rimuovibili: dalla memoria, dal vissuto, dal futuro di chi ha avuto la fortuna di vederli all’opera.
È che “Paolo Conte a Parigi” (e all’Olympia, in particolare) è uno di quei nessi e snodi inscindibili dai quali passa un’intera stagione culturale di un Paese. Il suo mito è nato qui, infatti, in una città che, con verso profetico, «accoglie i suoi artisti, pittori, mimi, musicisti» (che è una descrizione di Conte stesso), tra i boulevard, il «fiume suo pieno di neve» e quei teatri che decretano, da soli, vita morte e miracoli degli artisti che vi si esibiscono.
Paolo Conte, il suo primo miracolo, lo ha compiuto al Théâtre de La Ville, marzo 1985. I due giorni di oggi arrivano a 35 anni esatti da quelle prime, stupefacenti, esibizioni. Conte era una scommessa innovativa – complici supremi Renzo Fantini, il suo manager di allora, e Amilcare Rambaldi, il patron del Club Tenco –: semisconosciuto ai più, appartato e particolare, del tutto irriducibile a qualsiasi cosa suonata in Italia (ieri come oggi). Racconta Paolo Pinto in un pregevole libro, Paolo Conte. Ricordo di Francia (Auditorium, pagg. 134, € 18), che ci fu un preciso momento in cui si compì la transustanziazione. Lo ricorda Ellade Bandini, il batterista dell’epoca: «Abbiamo aperto con Hemingway. Lui parte con il brano e arriva il momento in cui suona il kazoo e la gente resta lì… Io penso: “Qui succede qualcosa”. Finito il pezzo, c’è stato un momento di silenzio, un secondo o due, che sono tantissimi in teatro, poi c’è stata un’esplosione. Ho guardato Fantini e lui ha fatto un gesto che più o meno voleva dire: da adesso in poi, potete fare quello che volete».
Prima del concerto all’Olympia dei giorni scorsi, ho il privilegio di poter chiacchierare a tu per tu con il maestro per qualche minuto. Gli rievoco quel momento. Lui mostra di non ricordare, dapprima, ma poi aggiunge un dettaglio rivelatore. «Sì, è una cosa comune nella musica classica. C’è un momento in cui senti il respiro del pubblico, un attimo di silenzio che regola le cose». Da quel boato inizia un’altra storia, no, una leggenda: Conte è adottato dai parigini, dai francesi, che allo «sguardo gelato», nel suo caso, ne sostituiscono uno pieno di amore e devozione. «In quegli anni – ricorda – fui ligio a ciò che vollero gli organizzatori francesi. Feci concerti in tutta la Francia profonda» e poi, come in un naturale sviluppo, venne proprio l’Olympia: «Tre settimane di tutto esaurito» commenta, non riuscendo a nascondere un sorriso soddisfatto ancor oggi. Gli chiedo se, dunque, pensi che i francesi abbiano un debole particolare per lui. Mi sorprende con una risposta convinta, che deve avere elaborato in anni di simili, sciocche, domande. «No. Questo no. Credo che il mio pubblico non sia diverso: in tutti i posti dove mi capita di suonare lo ritrovo: colto, borghese, appassionato». In effetti è così: e poi c’è la questione della lingua, delle parole, per Conte non certo secondaria. Celia: «I francesi fanno finta di capire i miei testi». E riprende: «Tuttavia, mi ricordo che fecero una trasmissione tv, violentissima, cruenta, sulle guerre, per la quale mi chiesero di cantare Come-di. Domandai al conduttore come mai proprio quella. Mi rispose: perché è la canzone degli addii: ecco, in questo caso centrarono perfettamente il significato».
Ma a Parigi Conte è tornato in molti altri modi: dalle canzoni che citano la città e ne fanno oggetto di poesia, fino al titolo, precoce e anch’esso profetico, Paris Milonga, che segnò subito una delle rotte dell’altrove più certe lungo le quali si è mosso questo ineffabile musicista. E poi il mito della Parigi anni 20, culla della civiltà occidentale e teatro di quella fusione tra il jazz americano che abbandona il folklore delle origini nere e diventa, con il dixieland, parte decisiva dell’identità del Nuovo mondo. Ed è in quel milieu lì che Conte ha scelto di ambientare il più ambizioso dei suoi lavori, Razmataz, il cui libro (con dvd, € 60) è appena tornato opportunamente in libreria per Feltrinelli dopo una gloriosa (e oramai introvabile) edizione per Allemandi. Musica, pittura, scrittura scenica e storica, un’opera-mondo nella quale inscenare il fervore culturale di una capitale e di un’epoca in piena trasformazione. Indefinibile per antonomasia, identificabile solo con se stesso (come succede appunto solo ai classici), Conte ama ripetere una definizione che diede della sua musica. «Ai francesi che mi chiedevano di spiegare in che cosa consistesse la mia arte dissi che era “Confusion mentale fin de siècle”». Definizione che piacque molto e che, negli anni, da confusione si è trasformata in certezza. La stessa che hanno avuto i francesi anche l’altra sera: quella di aver sentito ancora, a 83 anni appena compiuti, il ruggito di un vecchio leone che è destinato a non passare di moda, a regalarci sempre «un po’ di cinema» anche a noi spettatori, e farci sentire, ogni volta, «fradici di magia». Come ci sia riuscito è il più irrisolvibile dei rebus che l’esperto enigmista Conte ha proposto ai suoi contemporanei. E ai posteri, anche solutori più che abili, che non potranno altro che rimirare l’incanto di un italiano che ci ha saputo portare, tutti, per decenni, via con lui. Ebbene sì, Monsieur Conte: è (stato) un sogno fortissimo.
Stefano Salis