Lo scorso 18 agosto si sono celebrati i funerali di Stato per alcune delle vittime del crollo del ponte Morandi di Genova, e di lì a poco una foto ha cominciato a circolare: Matteo Salvini immortalato, in chiesa, in un selfie con una giovane donna. La foto è diventata virale, insieme a indignazione e disgusto dei suoi avversari politici e negazioni o giustificazioni da parte dei suoi sostenitori: la foto è falsa perché Salvini indossava una giacca di un altro colore, politici di sinistra si sono comportati nello stesso modo in occasione di altri funerali; c’è chi è arrivato a sostenere che la ragazza avesse la sindrome di Down. Di lì a poco una nota di Cristiana Alicata avrebbe gettato luce sull’episodio: dai video disponibili si vede il ministro dell’Interno che parla con i partecipanti e girandosi è colto di sorpresa dal veloce scatto della sua supporter; il post dell’attivista PD, che rimarcava l’importanza di una lettura più complessa e sincera della realtà e della necessità di concentrarsi sul contrasto a scelte politiche più significative, è stato rilanciato migliaia di volte ottenendo consensi bipartisan.
Il dibattito permanente da social network sta rendendo evidente il fenomeno del tribalismo politico: siamo disposti a cambiare i nostri criteri morali a seconda della percezione dell’appartenenza o meno della persona giudicata a un Noi. Una ricerca della Northeastern University di Boston l’ha dimostrato chiaramente: alcuni volontari erano divisi arbitrariamente in due squadre sulla base di supposti risultati a un questionario preliminare; in una prova successiva i partecipanti potevano osservare un complice degli esaminatori che barava in un compito. Quando ai partecipanti fu chiesto di valutare l’onestà del comportamento del complice, risultò in modo statisticamente significativo che chi riteneva il complice interno alla propria squadra giustificava il suo comportamento, mentre i partecipanti a cui fu riferito che era dell’altra squadra si dimostrarono estremamente più severi nel giudicarlo.
Nulla di sorprendente per gli scienziati sociali: il nostro cervello è in grado di classificare velocemente l’appartenenza o meno di un’altra persona al nostro gruppo in base a genere, etnia, età, status socioeconomico; e anche orientamento sessuale, lingua, religione, fede calcistica – e l’elenco potrebbe andare avanti a lungo. La tendenza a dividere le persone tra Us and Them, come cantavano i Pink Floyd, è radicata nel nostro sistema nervoso – rimasto inalterato dall’epoca in cui vivevamo nelle caverne – perché necessaria alla sopravvivenza. È stato dimostrato che chi viene esposto all’immagine di una persona percepita come di un gruppo diverso – ad esempio con il colore della pelle diverso dal nostro – reagisce con un’attivazione immediata dell’amigdala, un nucleo profondo del nostro cervello legato alle reazioni di paura, mentre l’immagine di un appartenente al gruppo sollecita la produzione di ossitocina, ormone con effetti prosociali. L’effetto psicologico rilevante è la creazione di giustificazioni più o meno razionali a quelle reazioni biologiche.
Come sfuggirne? Bisognerebbe cercare di separare le persone dalle idee e, se necessario, contrastare le idee ma non le persone; conoscere il fenomeno ha il potere di ridurre la dissonanza cognitiva. Crescere in ambienti in cui la diversità è la normalità ha effetto, sebbene non sia automatico che tutti diventino un grande Noi. Come piccola prevenzione personale potremmo evitare di ridurre la nostra presenza social a quella bolla filtrata per cui nel tempo selezioniamo volontariamente (o tramite gli algoritmi) i nostri contatti tra quelli che la pensano come noi, facendoci perdere progressivamente il contatto con la realtà. La posta in gioco è alta: andare verso una democrazia capace di includere realmente tutti i cittadini, o virare nella direzione opposta.