Una sera come un’altra in un quartiere borghese di Roma, un giovane alla guida in stato di ebrezza investe una donna che muore in seguito all’urto. La macchina finisce poi nella vetrina dello studio di un professionista. A qualche metro dalla scena, una donna che si sta recando in ospedale per partorire assiste all’incidente. Tutte queste persone abitano curiosamente lo stesso immobile. Le loro vite avanzano in parallelo, fino a che un incidente, un clinamen imprevedibile, li fa scontrare. Detto in altri termini, il tema di Tre piani è la prossimità. Che cos’è il vicinato? Che cos’è questo strano stato di cose per cui passiamo anni, in qualche caso decenni, della nostra esistenza insieme a dei perfetti sconosciuti? È un semplice stato fisico? Oppure qualcosa di più, come una familiarità o un destino comune. Come fare a non fidarsi di queste persone che ci abitano accanto e che improvvisamente entrano nelle nostre vite? E come fare al tempo stesso a non diffidarne, visto che in fondo non le conosciamo mai completamente?
CHE QUESTO TEMA venga da uno scrittore israeliano non dovrebbe stupire. Anche se nel libro Eshkol Nevo conduce la propria riflessione nel territorio benevolo di uno stabile, i tre piani funzionano come una cartina al tornasole di un vicinato mediorientale ben più problematico. Ed è una delle mancanze del film che, estirpando la storia da Tel Aviv – la città nata come estensione della vicina Jaffa, e adattandola a Roma, perde quella tela di fondo politica che il cinema israeliano ha invece spesso messo in scena – basti pensare al film di Avi Mograbi Happy Birthday.
Il film di Nanni Moretti sembra invece galleggiare nell’etere, astratto dal mondo e ripiegato nelle proprie faccende. Si dirà che questa è precisamente la formula che questo cineasta ha fatto propria sin dal suo primo film-manifesto: Io sono un autarchico. E che in tutti i suoi film, compresi i più grandi, non ha mai smesso di creare delle miniature del mondo nel proprio personale universo, tanto che il suo cinema potrebbe dirsi una sorta di ego-cosmo, che in tante occasioni si è dimostrato capace di proporre un punto di vista effettivo nel quale un vastissimo pubblico si è potuto riconoscere, o con il quale è sempre stato utile confrontarsi.
Il caso di Tre piani è più arduo. È difficile trovare una lettura chiara dei problemi morali che il film accumula. Qual’è il limite tra il diritto di proteggere l’incolumità della propria figlia e il fatto di farsi giustizia da sé, in maniera sommaria? Oppure: che può fare una donna alla quale si chiede di scegliere tra il marito e il figlio? È difficile da un lato perché sono delle scelte tragiche in sé. E dall’altro perché Moretti, seguendo una traiettoria iniziata dopo Aprile, pur recitando un ruolo nel film, non rappresenta più con il suo personaggio il punto di vista del film. Il suo magistrato integerrimo e sentenzioso è solo un personaggio tra gli altri, e tutti si trovano in un certo senso sullo stesso piano, incapaci di trovare una via d’uscita o una bussola morale alla quale affidarsi.
QUEL CHE RESTA è allora un carosello di situazioni e soprattutto la tonalità emotiva del dramma, alimentata dai colpi di scena: morti, separazioni e situazioni imbarazzanti. L’incursione di un momento di realtà – l’attacco di un centro di assistenza agli immigrati da parte di una folla di squadristi – sembra solo una parentesi nella vita del condominio che appare come una cittadella rinchiusa nelle proprie paure.
Moretti è noto per prendere sul serio i propri scherzi. Non è forse lui che, contento di una scusa per visitare un condominio in Caro Diario («sto facendo un film su un pasticciere trotzkista, un film musicale») decide poi che l’idea non è male e, nel film successivo, la mette in scena? Sempre in Caro Diario, si ricorderà Moretti irridere i film italiani del riflusso: «Siamo invecchiati, imbruttiti, gridavamo cose orrende, violentissime, e guarda come siamo diventati…», dicevano un gruppo di amici, a cui Moretti ribatteva solare: «Voi siete invecchiati… Io gridavo cose giuste e ora sono uno splendido quarantenne». Ora, con Tre piani, in un certo senso, e certo involontariamente, sembrerebbe voler dare ragione ai primi.