Tra la carne, la vita, la scrittura, la fine, Joë Bousquet

Il suo corpo aveva l’evidenza allegorica di un mistero medievale, mentre affermava di abitare in un mistero incorporeo e di vivere non già nella sua vita fisica ma nel solo suo pensiero: Joë Bousquet è stato uno dei più singolari scrittori del Novecento francese, e la sua opera – largamente postuma – si divide tra poesie, racconti, pagine di diario e di riflessione filosofica contenuta perlopiù nello zibaldone di pensieri Traduit du silence, che Jean Pauhan nel 1941 volle immettere nel catalogo di Gallimard. Quel mistero medievale giaceva dal 1918 al primo piano del 53 rue Verdun a Carcassonne, in una stanza al buio, la celebre chambre bleue dalle cortine perennemente tirate. Alle pareti i quadri degli amici (Picasso, Max Ernst, Hans Bellmer), intorno – dicono i testimoni – un afrore di acqua di colonia mista a oppio.

Bousquet, da ragazzo un borghese viziato e bon vivant, appena ventenne era stato colpito alla colonna vertebrale durante la battaglia di Vailly da una pallottola che aveva paralizzato all’istante la metà inferiore del suo corpo: dunque, per i trent’anni successivi, la sua vita avrebbe aderito, senza possibili residui, alla sua stessa scrittura.

Mutano solo le cornici
«Il tempo dormiva, la mia carne ne era il sonno. Sprofondata fino agli occhi nel presentimento della sua fine, attendeva che la mia voce la liberasse dal suo incantesimo»: è un passo tratto dal palinsesto preparatorio e omonimo (uscito a Bruxelles nel ’39) del suo libro maggiore, Tradotto dal silenzio Prose (Mimesis, «Minima Volti» pp. 95, € 8.00), che esce a cura di Adriano Marchetti, lo studioso benemerito che di Bousquet ha tradotto fra gli altri libri La conoscenza della sera (Panozzo 1998) e Il Quaderno nero (ES 2000) operando sull’abbrivio di Note d’inconoscenza, il diario terminale pubblicato in italiano già nel 1983 grazie a In forma di parole», la rivista monografica di Gianni Scalia.

Ora, questo che si potrebbe anche considerare l’Ur testo di Tradotto dal silenzio associa quattro parti dissimili nel taglio (riflessioni, racconti, una breve tranche romanzesca) a riprova del fatto che l’immaginario dell’autore è concentrico perché in gioco è sempre la scrittura, la sua entità transeunte e volatile, la sua ambigua scaturigine, la sua stessa fallace entità. Del resto, quello di Bousquet è un immaginario che non ammette dialettica bensì soltanto quella capitale coincidenza tra il vivere, che significa scrivere la propria vita, e lo scrivere, che significa vivere la propria scrittura.

Perciò, nota Marchetti, «la natura poetica del testo non è leggibile solamente nella sua fedele appartenenza al linguaggio, ma anche nella analogia sconvolgente che il poeta riconosce tra la propria condizione di ferito e lo statuto interrogativo della scrittura sulla sostanza vitale e su sé stessa».

È dunque l’immaginario di un redivivo Cataro, dualista ossessivo e perpetuamente lacerato fra materia e spirito, luce e ombra, vita e scrittura. Non è mai possibile, infatti, discriminare nelle sue pagine la poesia dalla filosofia, la prosa mimetica da quella di invenzione, laddove possono mutare semmai le cornici. D’altronde Bousquet, che scriveva di notte («C’è una notte nella notte» è un altro dei suoi incipit più folgoranti), amava alternare il colore dei quaderni di appunti, azzurro per i brogliacci, rosa per le annotazioni critiche, bianco per le riflessioni mistiche, nero per un erotismo squassante (come ci informa puntualmente la sua biografa Edith de la Héronnière in Joe Bousquet Une vie à corps perdu, Albin Michel 2006).

Di giorno lo scrittore riceveva gli amici redattori dei «Cahiers du Sud», fautori di un aggiornamento della tradizione occitanica, e quelli di passaggio, non soltanto gli artisti (Bousquet fu forse il massimo collezionista del Midi, quanto alle opere dell’Avanguardia) ma anche scrittori e filosofi, a partire da Aragon e Paul Eluard, che per lui fu un fratello.

Sotto l’Occupazione, a pochi metri dalla Kommandantur di Carcassonne, la sua camera azzurra fu una boite-aux-lettres della Resistenza, nonché un nascondiglio di ebrei partigiani alla macchia e persone braccate: da Anna Seghers a Elsa Triolet e Simone Weil che lo visitò nel marzo del ’42 avviando una breve intensissima Corrispondenza (curata da Marchetti e Giancarlo Gaeta, SE 1994) proprio nei giorni in cui un trafiletto delatorio, anonimo ma suggerito da Robert Brasillach, in «Je suis partout» segnalava al 53 della rue Verdun l’esistenza di un ghetto di cospiratori. Ma la camera azzurra rappresentava anche, e paradossalmente, lo scenario della vita amorosa di Bousquet: al riguardo, oltre alla partitura sconvolta, esplosiva del Quaderno nero, un ininterrotto flusso epistolare ci rammenta il fatto che di lì passarono o tornarono sia i suoi amori giovanili, una Alice e una Ginette, quindi Germaine la ventenne di Carcassonne che nel ’37 ebbe il senhal provenzale di Poisson d’or, sia la dedicataria cifrata in Isel (a cura di Antonio Di Gennaro, traduzione di Arlindo H. Toska, Mimesis, «Minima Volti», pp. 139, € 8.00), titolo di un volume postumo che a un mannello di lettere datate 1946 associa un racconto, «Spartito», dove compare una donna con lo stesso nome.

Non è nemmeno così chiaro se «Isel» si riferisca a una o più donne, in quanto la pagina fraziona e ricompone il dettato scorporando le missive e traducendole in aforismi, ma è chiarissima invece, ed è costantemente ribadita, la primitiva antinomia da cui nasce un sentimento amoroso che avverte tanto la propria fragilità («Tra il mio amore e Isel non c’è posto per il mio corpo») quanto, specialmente, la sua drammatica improbabilità. Ciò che a un certo punto lo fa esclamare: «Un giorno, immagino te ne andrai per ritrovare l’uomo contro cui non ho il diritto di combattere». Qui l’amore, la sua fisica impossibilità che si lega a una non meno fisica impellenza, doppia lo scacco della scrittura, che per prodursi ha bisogno di ignorare il corpo, benché proprio il corpo la renda possibile.

Tra lui e Blanchot
Ossessione di una ossessione, la scrittura di Bousquet trovò un suo doppio speculare, un perfetto corrispettivo, in quella di Maurice Blanchot (il loro breve carteggio, a cura di Marchetti, è edito da Il Capitello del Sole, 2000) che ne individuava il costitutivo dualismo nella ricerca erratica di una interna coerenza, e nel frattempo «nello sfolgorìo di fiamme vaghe, mobili, libere dagli sguardi della mente che fanno scintillare in uno specchio di sonno». Uno specchio, quello di Joe Bousquet, che non moltiplica le immagini ma le rifrange e le introverte: tale è per lui il solo possibile speculum veritatitis, quello di un ultimo testimone dell’eresia catara, di un mistico medievale ossessionato dal bene del mondo, dal mistero della carne e dalla invadenza del mondo fisico, di un nostalgico del proprio corpo che egli infatti sa perduto una volta per sempre.

 

 

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