L’anniversario All’alba del 21 marzo di un secolo fa moriva a trentasette anni il grande scrittore seneseUn ribelle, che pose al centro gli impulsi incomprensibili di personaggi alla deriva. Guardando oltre la provincia
di Roberto Barzanti
Morì all’alba del 21 marzo 1920, Domenica di Passione, nella casa romana di via del Gesù. Da giorni Federigo Tozzi tribolava per una brutta polmonite, forse dovuta ad un colpo di coda della devastante epidemia di spagnola esplosa dopo la guerra mondiale. Aveva fatto appena in tempo a vedere un esemplare di Tre cro ci fresco di stampa. Agonizzante, accennando appena a sé, alla moglie Emma e al figlio Glauco, ne sussurrò il titolo. Aveva compiuto da poco trentasette anni.
In coincidenza col centenario era stato predisposto, a cura delle Università di Siena e del Comune, un denso programma per approfondire una rilettura critica della sua opera. L’inaugurazione era fissata proprio per il 21 marzo nella Sala del Mappamondo di Palazzo Pubblico. Come presidente del comitato promotore avrei, insieme al sindaco, dato il via ad un calendario fitto di appuntamenti. Un dialogo tra Antonio Moresco e Romano Luperini ne sarebbe stato l’inizio, certo non retorico. Tutto rinviato! Slitteranno ad altre date da stabilire le tappe di un viaggio che non salterà alcuna delle soste previste. L’edizione critica nazionale dell’opera omnia (in 17 volumi) diretta da Luperini e Castellana ha già sfornato la raccolta di novelle Giovani .
È inevitabile per me rammentare l’affollato convegno di cinquant’anni fa. Lo aprii da sindaco. Fu organizzato con la regia di Geno Pampaloni, direttore della Vallecchi che stava stampando le opere di un autore che non doveva esser più relegato nello spazio di un bozzettistico verismo in salsa toscana. Nella sua prolusione Alberto Moravia sottolineò la sintonia con il disorientamento degli anni di formazione, eleggendo a suo testo preferito Il podere , per la propensione a lumeggiare l’atavica cattiveria e gli egoismi brutali di vicende che proseguivano una visione di ascendenza verghiana. Luigi Baldacci esaltò la modernità di Tozzi, sviluppando un’indicazione che Giacomo Debenedetti nel 1963 aveva enunciato in una memorabile lezione tenuta proprio nella stessa Sala. Fu una svolta irreversibile.
L’impetuoso Federigo prorompeva sulla scena come «il primo cronologicamente dei nostri narratori nuovi», ribelle all’ottocentesco naturalismo, teso da una ricerca che poneva al centro i moti misteriosi della coscienza, gli impulsi incomprensibili di personaggi alla deriva. Da allora si è accumulata una bibliografia che ha accresciuto la conoscenza di un’esperienza singolare a respiro europeo. L’indubbio fondo di rustica istintività non ha disdegnato — documenta Marco Marchi — la curiosa esplorazione delle teorie psicologiche di un William James. Dalla periferia di una provincia abbarbicata alle sue icone medievali Tozzi seppe guardare molto oltre. L’accostamento a Svevo e Pirandello non è scaturito dalla volontà di comporre un’accomodante trilogia. Tozzi è diventato un classico, uno dei quegli autori che si collocano a uno snodo cruciale dell’innovazione letteraria.
Perché, vien da domandarsi, leggere oggi Tozzi? Appunto perché è un classico del Novecento, e come tutti i classici è sempre attuale/inattuale. Né deve necessariamente sorprenderci dicendo qualcosa che non sapevamo già: in un classico alle volte «scopriamo — ha scritto Calvino — qualcosa che avevamo sempre saputo (o creduto di sapere) ma non sapevamo che l’aveva detto lui per primo». Cosa ha detto per primo Tozzi? Innanzi tutto ha creato il personaggio dell’inetto. I veri inetti della letteratura italiana del Novecento si chiamano Pietro Rosi e Remigio Selmi, i protagonisti di Con gli occhi chiusi e del Podere . Inetti veri, incapaci di guardare obiettivamente alla realtà, di modificarla, o anche solo di trarre predace vantaggio dalle miserie altrui grazie a un colpo di fortuna.
Gli eroi di Tozzi sono inadatti a stare al mondo. Non li riscattano dall’oscura gravità del vivere l’ironia, l’umorismo o la capacità di ridere di sé e delle proprie miserie di un Mattia Pascal. Tozzi non fa sconti, e questo è un tratto che accomuna la sua negatività a quella di Kafka. Tra Il pro cesso e Il podere c’è un’affinità profonda, che fa di questi romanzi due riletture blasfeme del libro biblico di Giobbe: due risposte tragiche al problema antico della sofferenza del giusto e del lamento dell’innocente. Riccardo Castellana, che inserisce Tozzi nella variegata tendenza del «realismo modernista», fa notare le peculiarità linguistiche che non poco hanno ostacolato una più larga ricezione: «In Tozzi vocabolario e sintassi rispondono a una grammatica privata: nel suo impasto linguistico confluiscono espressionisticamente tanto le parole di Santa Caterina e di San Bernardino quanto le voci di strada della sua Siena. Congiunzioni e segni interpuntivi hanno una funzione ritmica, musicale: un ‘ma’ può non avere valore avversativo, virgole e punti e virgola proliferano incontrollati, ma servono a inquadrare un particolare, a isolarlo dal tutto, come una zoomata in un film espressionista degli anni Dieci».
Perché leggere Tozzi? Perché ha una forza che s’impone oltre le mode passeggere. Luperini spiega le ragioni di una marginalità tuttora da sconfiggere: «Il fatto è che non è uno scrittore ludico. Se non è dialettico, umoristico, analitico come Pirandello, tanto meno può essere vario, ironico, giocoso. Tempi duri dunque l’attendono: anche da parte della critica, che lo riconosce sì, ormai, come un classico del Novecento, ma lo tiene in disparte, quasi schifata, si direbbe, della sua ‘pesantezza’, della sua mancanza di superiorità, della sua incapacità di gioco. Après Calvino (ma anche Kundera e Nietzsche) è di moda infatti esaltare la leggerezza e vedere addirittura in essa il tratto caratteristico della grande letteratura».
Rileggere Tozzi, quindi, in controtendenza, quale antidoto alle mode futili. Nella casa rossa abitata dallo scrittore fino al 1914 incontro — quasi in pellegrinaggio — Silvia Tozzi, la nipote che gestisce con sensibile e generosa intelligenza un’eredità difficile: «Nel nostro mondo dominato da realtà virtuali — mi confida — Federigo, un nonno scomparso quando il figlio Glauco era appena adolescente, sbiadisce come figura fisica tra remoti ricordi di famiglia, mentre è vivo in un modo di sentire persone, cose, alberi, animali, soprattutto qui a Castagneto, che fa tutt’uno col Poggio a’ Meli del suo primo romanzo. È come se la presa delle sensazioni trasmesse dalle sue pagine emanasse ancora dalla campagna dove gli pareva che il senso dell’infinito si distendesse sopra i prati oltre la Montagnola, mentre dentro le mura della città-prigione avvertiva un senso di oppressivo soffocamento: la sua scrittura zampilla dall’inesauribile pozzo degli anni vissuti a Siena da ragazzo e da giovanotto». Nel salutarla mi torna in mente il passo di una novella del nonno, L’ombra della giovinezza : siamo immersi in una luce straniante, «quando tutti i campi e tutte le cose hanno un silenzio, di cui ci si ricorda per lungo tempo».