«The Book of Vision», lo spazio segreto delle immagini

Il cinema è un atto di fede. Significa sempre evocare le altre zone del visibile che restano irrimediabilmente alla superficie del visibile meramente documentario (e documentabile). Ciò che si vede è solo una parte dell’immagine; un primo passo verso regioni più remote. Carlo S. Hintermann, cinefilo, studioso, critico, autore di libri dedicati a Malick, Iosseliani, Kitano, nonché visionario regista di The Dark Side of the Sun, crede fermamente nel cinema e nelle sue possibilità di conferire nomi nuovi al mondo. In The Book of Vision, il libro della visione, il cinema è quel luogo che permette di intrecciare il tempo e ripensare lo spazio. In questo processo alchemico, nel quale il mondo non si ritrova più a essere il semplice luogo dei dati empiricamente verificabili, lo sguardo di Hintermann si libera come svincolato dalle logiche del possibile e crea tessiture addirittura intossicanti in netta controtendenza rispetto alle logiche dominanti. Non solo. Anche il racconto del film, la sua «trama», si sottrae con grande coraggio alle logiche dominanti del film-situazione, per abbracciare un percorso narrativo legato intimamente ai personaggi e al loro sviluppo. Dove tutto è incerto.

UNA GRAVE malattia costringe la giovane dottoressa Eva (Lotte Verbeek) ad abbandonare la carriera accademica per dedicarsi alla ricerca e alla storia della medicina per trovare un modo alternativo ai metodi tradizionali. Scopre così l’esistenza del Book of Vision, un’opera scritta nel XVIII secolo dal medico prussiano Johan Anmuth (Charles Dance). Nel manoscritto la donna inizia a scorgere le possibilità di un’altra relazione fra corpo, mente e desiderio, appassionandosi anche alla drammatica vicenda umana di Anmuth. Man mano che approfondisce lo studio del suo testo, Eva si ritrova sempre più sospesa tra molteplici dimensioni della sua percezione e del tempo.
Hintermann non teme di affrontare questioni complesse. Il rapporto fra medicina e contratto sociale; il rapporto fra sapere e potere; gli intrecci fra corpo e politiche del corpo.
La cosa più ammirevole del suo film è che ciò che in mani meno capaci si sarebbe ridotto nel migliore dei casi a un pamphlet frontale ed espositivo, diventa un’avventura alchemica e vertiginosa nelle quali le ragioni del cinema trionfano di una luce assoluta.

OGNI DETTAGLIO del film di Hintermann manifesta il piacere, addirittura bertolucciano, del regista per la sua materia. Non c’è un solo fotogramma del quale si potrebbe sospettare sia stato aggiunto al mosaico del film per mere ragioni di opportunità. Tutto esprime un sentimento profondo di necessità.
In questo senso è interessante osservare che il regista ha impiegato molto tempo a montare la produzione (assistito dal fedele Gerardo Panichi) non cedendo mai rispetto alla direzione che intendeva imprimere al suo lavoro. Rispetto a una logica degli esordi – nazionale e internazionale – dove il film deve essere immediatamente leggibile e riconducibile a elementi noti, il film di Hintermann si segnala per il suo carattere completamente e spericolatamente refrattario. The Book of Vision non assomiglia a nulla di quanto si vede comunemente al cinema oggi. Il regista, pur non avendo mai fatto mistero della sua cinefilia, crea una maestosa architettura visiva che la direzione della fotografia di Joerg Widmer celebra con una dolce e gentile sontuosità mai esibita e sempre funzionale al racconto. Hintermann pensa in grande. Come certi autori del cinema italiano di una volta, come certi produttori italiani di una volta. Con tutte le differenze del caso, The Book of Vision è un film ambizioso, visionario e profondamente italiano. Come potevano esserlo i film di Bertolucci, Leone, Argento, o quelli prodotti da Grimaldi e de Laurentiis. The Book of Vision possiede quel tipo di passo e profondità.

 

ED È IN QUESTA dimensione che la visione poetica di Hintermann emerge compiutamente come una delle cose nuove più sorprendenti del cinema italiano e non solo. Fra le magnifiche pagine di questo film incantato si libera una voce il cui canto è forte e preciso. Hintermann si muove fluidamente fra le immagini di una natura alchemica e animista, fra la sapienza ebraica e un sentire cosmico libero.
Emoziona e commuove la libertà e la fede di Hintermann nel cinema; il suo invocare e appellarsi alle forze più segrete del cinema per ripensare e immaginare altre zone del visibile che inevitabilmente sono anche nuove aree del sentire.
The Book of Vision è uno di quei film, sempre più rari, nei quali il regista, in questo caso un autentico autore, conferisce corpo e presenza a un mondo altro; un mondo mai visto che prende forma grazie alla precisione e alla verificabilità delle immagini evocate per crearlo. Hintermann sa che l’immagine è sempre un’altra immagine; un segno che rivela quanto l’occhio può solo percepire ma non vedere. Ed è proprio lungo questo discrimine che si muove come un dolce sciamano invitandoci a vedere meglio; a sentire di più; ad abbandonarci a un flusso di immagini gentili che ci permettono di riscoprire il nostro corpo come una macchina di visioni; una dream machine che si sfoglia come un libro delle visioni.

Che in Italia, oggi, emerga un film simile è motivo di gioia e fiducia. Il segno che il cinema è ancora vivo e che è ben lungi dall’avere esaurito le possibilità di esplorare il visibile (non solo quello ammesso) e tutte le sue possibilità ancora da immaginare.

 

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