Ripubblichiamo questo articolo dello storico Giacomo Scotti, pubblicato per la prima volta sul manifesto del 5 febbraio 2014, vista la sua scottante attualità.
Inizio con tre brani di un discorso pronunciato al Teatro Ciscutti di Pola da Benito Mussolini il 20 settembre 1920, dando inizio alle brutali violenze contro le popolazioni della Venezia Giulia: «Qual è la storia dei Fasci? Essa è brillante! Abbiamo incendiato l’Avanti! di Milano, lo abbiamo distrutto a Roma. Abbiamo revolverato i nostri avversari nelle lotte elettorali. Abbiamo incendiato la casa croata di Trieste, l’abbiamo incendiata a Pola…»…«Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini italiani devono essere il Brennero, il Nevoso e le (Alpi) Dinariche. Dinariche, sì, le Dinariche della Dalmazia dimenticata!… Il nostro imperialismo vuole raggiungere i giusti confini segnati da Dio e dalla natura, e vuole espandersi nel Mediterraneo. Basta con le poesie. Basta con le minchionerie evangeliche».
Dopo quel discorso, l’Istria fu messa a ferro e fuoco. Venti anni dopo quel discorso le truppe di Mussolini invasero Dalmazia, Slovenia e Montenegro, dando inizio a nuove stragi in nome della civiltà italiana.Dalle terre annesse all’Italia dopo la prima guerra mondiale – cioè all’ampliamento ad est dei territori di Trieste e di Gorizia, all’Istria intera, alla provincia di Fiume detta del Quarnaro ed all’enclave dalmata di Zara – le violenze fasciste e la snazionalizzazione forzata costrinsero ad andarsene più di 80.000 sloveni, croati, tedeschi e ungheresi, ma anche alcune migliaia di italiani antifascisti
Nel 1939, un anno prima che l’Italia fosse gettata nella seconda guerra mondiale, le autorità fasciste della Venezia Giulia attuarono in segreto un censimento della popolazione di quelle terre annesse venti anni prima, accertando che in esse vivevano 607.000 persone, delle quali 265.000 italiani e cioè il 44%, e 342.000 slavi detti allogeni, ovvero il 56%.
Una cifra notevole nonostante l’esodo degli ottantamila, nonostante che agli slavi fossero stati italianizzati i cognomi, fosse stato vietato di parlare la loro lingua, fossero state tolte le scuole e qualsiasi diritto nazionale.
Nonostante le persecuzioni subite, nonostante che migliaia di loro fossero finiti nelle carceri o al confino, e che alcuni dei loro esponenti – Vladimir Gortan, Pino Tomazic ed altri – fossero stati fucilati in seguito a condanne del Tribunale speciale fascista oppure uccisi dalle squadre d’azione fasciste a Pola (Luigi Scalier), a Dignano (Pietro Benussi), a Buie (Papo), a Rovigno (Ive) e in altre località istriane.
Emblematici di queste persecuzioni contro slavi e antifascisti italiani in Istria e Venezia Giulia sono i sistemi coercitivi per inviare i contadini al lavoro nelle miniere di carbone di Arsia-Albona dove, per duplicare la produzione senza però adeguate protezioni dei minatori sui posti di lavoro, nel 1938 ci fu una tragedia (allora taciuta dalla stampa) in cui persero la vita 180 minatori, lasciando oltre mille vedove ed orfani. Emblematica di quel periodo in Istria è anche una canzoncina cantata dei gerarchi che diceva:
A Pola xe l’Arena/ la Foiba xe aPisin: butaremo zo in quel fondo/ chi ga certo morbin.
E alludendo alle foibe, un’altra poesiola minacciava chi si opponeva al regime:
… la pagherà/ in fondo alla Foiba finir el dovarà.
Aprile 1941, l’aggressione
Nell’aprile del Quarantuno, infine, si arrivò all’aggressione alla Jugoslavia senza dichiarazione di guerra, seguita dall’occupazione di larghe regioni della Slovenia e della Croazia, dall’intero Montenegro e del Kosovo, infine dall’annessione al Regno d’Italia di una grossa fetta della Slovenia ribattezzata Provincia di Lubiana, di una lunga fascia della costa croata che formò il Governatorato della Dalmazia con tre provincie da Zara fino alle Bocche di Cattaro, e la creazione della nuova provincia allargata di Fiume detta “Provincia del Quarnaro e dei Territori annessi della Kupa” comprendente tutta la parte montana della Croazia alle spalle del Quarnero più le isole di Veglia ed Arbe che si univano a quelle di Cherso e Lussino.
Così l’Italia incorporò nel proprio territorio nazionale regioni abitate al 99% da sloveni e croati con una popolazione di oltre mezzo milione di persone che si aggiungevano al 342.000 “allogeni” già assoggettati all’Italia ed al fascismo italiano da due decenni. Il Montenegro intero fu trasformato a sua volta in un Governatorato italiano. Il Kosovo, territorio della Macedonia, fu annesso invece alla cosiddetta Grande Albania che già dal ’39 era una colonia dell’Italia.
Le violenze contro i civili dei territori annessi o occupati furono compiuti in base a “una ben ponderata politica repressiva” come ci rivela una ben nota circolare del generale Roatta del marzo 1942 nella quale si legge: “il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato nella formula dente per dente, ma bensì da quella testa per dente”.
A sua volta il generale Robotti, ordinando rastrellamenti a tappeto nel giugno e agosto 1942, indicava queste soluzioni alle truppe dell’XI Corpo d’Armata: “internamento di tutti gli sloveni per rimpiazzarli con gli italiani” e per “far coincidere le frontiere razziali e politiche”: “esecuzione di tutte le persone responsabili di attività comunista o sospettate tali”. Infine, “Si ammazza troppo poco!”.
Mi limiterò a un piccolo territorio alle spalle di Fiume e ad un solo mese, luglio del 1942. Nelle borgate di Castua, Marcegli, Rubessi, Viskovo e Spincici furono incendiate centinaia di case e fucilate decine di persone come «avvertimento». Nel Comune di Grobnik, il villaggio di Podhum fu completamente raso al suolo per ordine del prefetto Temistocle Testa.
All’alba del 13 luglio, per “vendicare” due fascisti scomparsi il giorno prima da quel villaggio, furono dapprima saccheggiate e poi incendiate 484 case, portati via mille capi di bestiame grosso e 1300 pecore, deportati nei campi di concentramento in Italia 889 persone (412 bambini, 269 donne e 208 uomini anziani) e fucilate altre 108 persone. Uno sterminio.
I fascisti italiani, passati al servizio del tedeschi dopo il settembre 1943, continuarono a battersi “per l’italianità” dei territori ceduti al Terzo Reich. Fra tanti sia ricordato l’episodio di Lipa (30 aprile 1944) dove 269 vecchi, donne e bambini sorpresi quel giorno in paese, furono sterminati: parte fucilati, parte rinchiusi in un edificio e dati alle fiamme. Di tali eccidi ce ne furono a centinaia in Istria, nel territorio quarnerino, in Slovenia, in Dalmazia, in Montenegro, ovunque arrivarono i militari fascisti e le altre formazioni inviate da Mussolini.
Nei miei scritti ho documentato lo sterminio di 340.000 civili slavi fucilati e massacrati dall’aprile 1941 all’inizio di settembre 1943 nel corso dei cosiddetti “rastrellamenti” ed operazioni di rappresaglia contro le forze partigiane insorte. Ho anche scritto, ma non sono stato il solo in Italia, di altri 100.000 civili montenegrini, croati e sloveni deportati nei capi di concentramento approntati dalla primavera all’estate del 1942 dall’esercito italiano per rinchiudervi vecchi, donne e bambini colpevoli unicamente di essere congiunti e parenti dei “ribelli”. In quei campi disseminati dalle isole di Molat e Rab/Arbe in Dalmazia fino a Gonars nel Friuli ed altri in tutto lo Stivale, morirono di fame, di stenti e di epidemie circa 16.000 persone nel giro di poco più di un anno di deportazione.
Tutto questo viene taciuto nella Giornata del Ricordo che si celebra in Italia da una decina d’anni.
Si ricordano soltanto le nostre perdite: il dolore dei nostri connazionali costretti a lasciare le terre concesse all’Italia dopo la prima guerra mondiale, il dolore delle famiglie degli infoibati nel settembre 1943 in Istria e nel maggio 1945 a Trieste, Gorizia e Fiume subito dopo l’ingresso delle truppe di Tito.
È giusto, è doveroso ricordare foibe ed esodo, le nostre vittime, i nostri dolori, ma non si dovrebbero tacere il contesto storico, le colpe del fascismo che portarono alla sconfitta ed alla perdita di quelle regioni. Non si dovrebbero tacere o volutamente ignorare le vittime delle popolazioni slave oppresse, martoriate e decimate dapprima nel ventennio fascista in Istria ed a Zara, ma soprattutto nella seconda guerra mondiale.
Sulla bilancia e nel contesto storico vanno messi, dunque, anche i dolori che noi abbiamo arrecato agli altri.
La retorica e la canea mediatica
In un saggio sul Giorno del Ricordo pubblicato nel 2007, l’autorevole storico italiano Enzo Collotti scrisse sull’argomento parole da non dimenticare, denunciando l’enfatizzazione di «una retorica che non contribuisce ad alcuna lettura critica del nostro passato, né ad elevare il nostro senso civile, ma – cito – alimenta ulteriormente il vittimismo nazionale», dando «ai fascisti e postfascisti la possibilità di urlare la loro menzogna-verità per oscurare la risonanza dei crimini nazisti e fascisti ed omologare in una indecente e impudica par condicio della storia tragedie incomparabili». Collotti condanna in particolare la «canea, soprattutto mediatica, suscitata intorno alla tragedia delle foibe dagli eredi di coloro che ne sono i massimi responsabili», che non permette di «fare chiarezza intorno a un modo reale della nostra storia che viene brandito come manganello per relativizzare altri e più radicali crimini» compiuti dai fascisti.
Per Colottti, le vicende delle foibe e dell’esodo ci riportano «alle origini del fascismo nella Venezia Giulia», una regione definita italianissima da chi non vuole accettare la realtà di un territorio multietnico e «trasformato in un’area di conflitto interetnico dai vincitori» della prima guerra mondiale, «incapaci di affrontare i problemi posti dalla compresenza di gruppi nazionali diversi», anzi decisi ad estirpare anche con lo spargimento di sangue qualsiasi presenza non italiana.
Calpestando le tradizioni della cultura italiana, il fascismo impose alle nuove terre – così come tentò di fare nei territori balcanici occupati nella seconda guerra mondiale – «una italianità sopraffattrice», rivelando il suo volto criminale, suscitando la legittima rivolta di quei popoli e trascinando l’Italia nel dramma della sconfitta. Un dramma di cui non fu vittima, ma protagonista. «I paladini del nuovo patriottismo d’oggi, fondato sul vittimismo delle foibe – cito sempre Collotti – farebbero bene a rileggersi i fieri propositi dei loro padri tutelari, quelli che parlavano della superiorità della civiltà e della superiore razza italica». «Che cosa tuttora sa la maggioranza degli italiani sulla politica di sopraffazione del fascismo contro le minoranze slovena e croata… addirittura da prima dell’avvento al potere: della brutale sua generalizzazione (…) come parte di un progetto di distruzione dell’identità nazionale e culturale delle minoranze?».
E della sciagurata annessione al regno d’Italia di una parte della Slovenia e della Dalmazia, con il seguito di rappresaglie e repressioni che poco hanno da invidiare ai crimini nazisti? Che cosa sanno degli ultranazionalisti italiani che nel loro odio antislavo fecero causa comune con i nazisti insediatisi nel cosiddetto Litorale adriatico, sullo sfondo dei forni crematori della Risiera di Trieste e degli impiccati di via Ghega sempre a Trieste, delle stragi in Istria, nel Quarnero, a Pisino e altrove?
I «lembi della Patria»
Poco sanno gli italiani perché da dieci anni, nelle scuole e fuori si parla soltanto di foibe e di esodi, di crimini compiuti dagli «slavi», e nulla dei crimini compiuti dai fascisti italiani la cui documentazione è tuttora chiusa negli «armadi della vergogna», insieme ai documenti delle conseguenze pesanti di una guerra scellerata, di una guerra perduta. Lo scotto fu pagato dalle popolazioni delle provincie del confine orientale, le più esposte sui cosiddetti «lembi della Patria».
La verità non chiede nulla, soltanto il coraggio di trovarla e dirla. Ma ora per impedirla si chiede una legge che condanni al carcere gli storici indicati da essi come riduzionisti e negazionisti, definiti tali solo perché si battono per far conoscere tutta la verità, insorgendo anche contro chi – con le menzogne – getta il fango sulle stesse vittime italiane – e mi riferisco agli infoibati ed esodati dalle terre perdute per colpa di Mussolini. bisognerebbe smetterla di gonfiare all’infinito, col volgari falsità, il numero di queste nostre vittime e di speculare politicamente oggi sulle tragedie vissute dai nostri fratelli dell’Istria, di Fiume e di Zara.
Sì, dico Zara perché in Dalmazia di terra concessa all’Italia nel 1920, c’era soltanto l’enclave di Zara e non tutta la Dalmazia. Perché parlare oggi di Dalmazia italiana? Va bene se si ricorda la cultura italiana seminata da Venezia dal Quattro al Settecento, ma se si vuole alludere alla Dalmazia occupata e annessa da Mussolini dall’aprile 1941 al settembre 1943, allora no, quella non era terra italiana, altrimenti non sarebbe stata messa a ferro e fuoco per spezzarne la resistenza.
Basta con l’esaltazione del colonialismo fascista!
Basta con le menzogne e le speculazioni sulle tragedie dei nostri fratelli di Zara, di Fiume, del Quarnero ed Istria, senza nascondere le vittime croate, slovene, montenegrine, cioè di quei popoli che, da sempre nostri vicini di casa, vogliono essere nostri amici nell’Unione Europea, con i quali dobbiamo commerciare, costruire ponti comuni, un mondo senza guerre e senza rancori.
Basta con le omissioni, con le ricostruzione disinvolte dei fatti letteralmente inventati dalla destra neofascista che sta costruendo una specie di controstoria da tramandare per coprire la vergogna del fascismo, e per rinfocolare le pretese territoriali sulla costa orientale dell’Adriatico.
L’«era» Mussolini
Il mio sogno, che non è soltanto il mio, è l’istituzione di una Giornata dei Ricordi, al plurale, nella quale poter unire nei loro dolori italiani e slavi, indicando nel fascismo e nel nazionalismo di ambedue le parti i veri colpevoli delle guerre, delle distruzioni, degli eccidi, delle vendette, e degli esodi del passato, additando in essi i pericoli che incombono sul comune futuro di amicizia e cooperazione.
Oggi, quando l’Italia, Slovenia e Croazia stanno insieme nell’Unione europea, quando i confini sono caduti. Ricordiamo che in Slovenia e Croazia vivono ancora trentamila italiani sui quali non devono cadere l’ombra e il peso degli odi del passato.
Perché essi, in gran parte discendenti da matrimoni misti e adusi ormai da settant’anni alla convivenza, al plurilinguismo e al multiculturalismo, vanno considerati l’anello che unisce le due sponde dell’Adriatico; essi svolgono e ancor più in futuro sono chiamati a svolgere il doppio ruolo di conservare la cultura e la lingua italiana nella regione istro-quarnerina e di esercitare la funzione di cordone ombelicale fra i paesi confinanti o dirimpettai.
Riposta ogni rivendicazione territoriale da parte italiana su Capodistria, Pola, Fiume, Zara eccetera, condannate le colpe dell’imperialismo fascista e le velleità revansciste, ma anche le colpe di coloro che nei giorni burrascosi del settembre 1943 e dell’immediato dopoguerra degli anni Quaranta del secolo scorso scrissero le vergognose pagine delle foibe; ricordando sempre che l’esodo degli italiani dalle terre perdute fu conseguenza di una guerra voluta e perduta dal fascismo, oggi i figli degli esuli e dei rimasti si ritrovano per quello che sempre furono: fratelli.
Ma non basta.
Gli italiani rimasti sulla sponda orientale dell’Adriatico, per lunghi anni accusati dall’estrema destra italiana di tradimento, indicati come titoisti, potranno restare nel cuore di tutti gli italiani dello Stivale soltanto se si coltiverà l’amicizia con i popoli in mezzo ai quali essi vivono e se saranno rispettati e riconosciuti il loro ruolo e il loro merito di aver mantenuto vive le radici in quelle terre quali cittadini della Slovenia e della Croazia, perpetuando la lingua materna e coltivando l’amore per la madrepatria.
Dai massimi vertici negli ultimi tre anni, è stato dato l’esempio da seguire, a cominciare dal vertice dei presidenti sloveno, croato e italiano avvenuto a Trieste nel 2010. Con l’incontro dei presidenti italiano e croato, Napolitano e Josipovic, all’Arena di Pola, nel 2011.
Ci sono stati nel 2013 altri due vertici: gli incontri fra Josipovic e Napolitano alla fine di giugno a Zagabria e all’inizio di dicembre a Roma. Napolitano ha auspicato il «superamento di un passato che ha portato purtroppo ingiustizie e sofferenze alle popolazioni dei nostri due Paesi»; Josipovic ha ricordato a sua volta la frattura apertasi nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, che, coinvolgendo italiani esuli e rimasti insieme ai croati (e sloveni), si può considerare ormai rimarginata: «Con il presidente Napolitano – ha detto ancora – abbiamo riconosciuto le sofferenze di entrambi. Ora i nostri rapporti sono diversi». Hanno sempre partecipato i massimi esponenti dell’Unione Italiana, e cioè degli italiani d’oltre confine, i «rimasti» appunto.
Per concludere: i circoli della destra filofascista in Italia devono smettere di manipolare la storia per rinfocolare odi e rancori.
Basta con le accuse degli estremisti al cosiddetto «sanguinario conquistatore» croato, sloveno e slavo in genere, perché non furono quei popoli ad aggredire e invadere l’Italia nel Quarantuno, né ad occupare larghe fette dell’Italia come fecero le truppe di Mussolini in Jugoslavia fino al settembre 1943.
Basta con il fascismo di frontiera, antislavo da sempre, ieri come oggi. Basta con il negazionismo aggressivo del neofascismo che cerca di nascondere i crimini della cosiddetta «era» di Mussolini, il periodo peggiore subito dagli istriani, dai fiumani e dai dalmati.
Vogliamo rispetto per quelle terre e per le loro popolazioni che ci insegnano la convivenza basata sul reciproco rispetto delle sofferenze passate e sulla reciproca volontà di costruire un migliore futuro comune.
Non possiamo accettare atteggiamenti rancorosi di chiusure al futuro, né cedere a un camuffato neoimperialismo – anche culturale – di ritorno che cerca di essere amnistiato con il Giorno del Ricordo delle foibe e dell’esodo delle terre perdute.
Auspico che in avvenire, in una plurale Giornata dei Ricordi non si insista sulla contabilità falsata di esodati e vittime, ma si consideri tutto il male del passato, e si agisca perché non si ripeta in futuro in queste terre e nella stessa Italia quella barbarie che ha fatto parte del lungo «secolo breve» qual è stato il Novecento.
Combattente dei Ricordi
di Boris Pahor
Al nome di Predrag Matvejević ho sempre associato la voglia di lottare per la giustizia e la verità. Anni fa, ancora sotto l’ex Jugoslavia, era intervenuto a favore del poeta e partigiano sloveno Edvard Kocbek, cui il regime aveva impedito di partecipare a un convegno sulla poesia a Ohrid, in Macedonia, in quanto fervente sostenitore del cristianesimo sociale e quindi lontano dal socialismo jugoslavo. Matvejević non era riuscito a fare inserire Kocbek nella lista dei partecipanti ma aveva letto le sue poesie davanti a tutti.
Ci siamo conosciuti personalmente dopo la guerra che ha diviso i Balcani. Veniva spesso a Trieste quando c’era un dibattito sui diritti delle minoranze, appoggiava sempre la causa. Molte volte ci siamo vicendevolmente aiutati sulle questioni di principio. Quando le autorità di Zagabria gli hanno impedito di venire a Trieste, ho pubblicato un elenco di tutti i casi, simili a quello di Kocbek, in cui era intervenuto per raddrizzare la giustizia. A maggior ragione l’ho sostenuto quando il tribunale di Zagabria lo ha condannato a cinque mesi nel 2005 per calunnia e ingiuria nei confronti dello scrittore Mile Pešorda, poeta bosniaco trasferitosi in Croazia durante la guerra, partigiano dell’ideologia colpevole del disastro jugoslavo.
Ci siamo incontrati prima che la televisione mi rendesse famoso nel 2008 e lui era molto più conosciuto di me. Lo stimavo anche se era comunista; avevamo visioni politiche differenti ma era un uomo onesto. Nel 1974 era stato espulso dal partito per aver scritto una lettera in cui esortava Tito a preparare la successione, creare cioè una Jugoslavia confederale come quella che proponevo io sulla mia rivista «Zaliv».
Mi regalò il suo Breviario Mediterraneo (Garzanti, 2006) che ricostruisce in modo narrativo la storia “geopoetica” del Mediterraneo. È uno studio importante che merita una riflessione, soprattutto per noi sloveni che viviamo sulla costa, e abbiamo molte delle caratteristiche descritte nel libro di Matvejević, un carattere più aperto degli abitanti dell’entroterra e l’amore per la pianta dell’ulivo. L’ho continuato a seguire anche sul «Primorski dnevnik», il giornale triestino della minoranza slovena, dove pubblicava molti racconti a puntate sul pane, che poi vennero raccolti nel libro Pane nostro (Garzanti, 2015).
Il nostro vero sodalizio è nato però sulla legge 30 marzo 2004 n. 92, che istituisce “Il Giorno del ricordo” il 10 febbraio di ogni anno. Matvejević è intervenuto sul «Corriere della Sera» a sostegno della mia tesi, che avevo esternato anche su «Il Sole 24 Ore», il «Corriere della Sera» e sul «Piccolo» di Trieste, in cui suggerivo che il “Giorno del Ricordo” venisse trasformato ne “Il giorno dei Ricordi”.
Matvejević aveva provato sulla sua pelle cosa fosse il fascismo, conosceva bene anche i campi di concentramento in cui venivano deportati sloveni e croati, e ancora prima della guerra, la soppressione dell’identità e della cultura slovena e croata da parte degli italiani, come ho scritto sul numero di «Micromega» dedicato alla Resistenza del marzo 2015.
Basterebbe una nuova commissione italo-slovena di cultura e di Storia che facesse ulteriore chiarezza su quanto accadde ai due popoli anche negli anni della guerra e nel periodo postbellico. Già un rapporto rispettoso delle due verità era stato stilato, ma i risultati sono stati lasciati nel cassetto. Sarebbe necessario solo per ridiscutere i punti dove la politica non si riesce a mettere d’accordo. I tedeschi e i francesi ci sono riusciti, mentre in Italia il tutto è stato tacitato da un accordo tra Gianfranco Fini e Luciano Violante a Trieste nel 1998, poi ripetuto nel 2015 al teatro Verdi, in cui era stato aumentato il numero degli infoibati per tacere sul fatto che la lista di coloro che sono finiti nelle foibe era stata stilata anche dai comunisti italiani, che allora erano tutt’uno con quelli jugoslavi e avrebbero voluto che Trieste venisse consegnata a Tito.
Credo che il modo migliore per onorare la memoria dell’amico Predrag sia ribadire con fermezza che non si tacciano i crimini fascisti contro gli sloveni nascosti nell’armadio della vergogna e che “Il giorno del Ricordo” diventi “Il giorno dei ricordi”, proprio come aveva proposto lo stesso Matvejević.