Banche, crescono i dividendi ma anche i tagli al personale

La ministra del Lavoro Catalfo convoca i vertici Unicredit per discutere il piano di 5.500 esuberi Dai primi otto gruppi italiani 5,16 miliardi sono finiti agli azionisti, due terzi degli utili del 2019
di Andrea Greco
MILANO — Le banche italiane si stanno allargando troppo, a favore degli azionisti e a scapito di chi ci lavora o le utilizza? Nei conti 2019 c’è un revival dei dividendi, saliti oltre i 5,16 miliardi di euro contando gli otto gruppi maggiori, pari al 62,9% di 8,21 miliardi di utili netti aggregati. Dati in crescita, se si trascura il miliardo perso da Mps, solo contabile e legato a crediti fiscali futuri.
Per tutte vale il rilancio, pur se tenue, della redditività, favorita — con ricavi stabili sopra i 50 miliardi per il campione — dal forte rialzo dei mercati 2019, riflesso in un diffuso aumento dei margini da commissioni e da negoziazione titoli. Sul versante opposto, dei costi, la disciplina in atto da anni ha portato a un calo di oltre il 2% di quelli operativi, incardinati sulle spese per il personale. Così le più redditizie tra le otto — Intesa Sanpaolo, Unicredit, Banco Bpm, Ubi, Bper — hanno avuto più riguardi per i loro azionisti, mentre Credem deciderà a giorni (dopo un +7,8% dei profitti 2019) e Creval e Mps sono a bocca asciutta. Il più dei dividendi, pari a 4,76 miliardi, riguarda Intesa Sanpaolo e Unicredit, le due maggiori banche che insieme valgono 7,56 miliardi di utili. La prima ha una tradizione di ricche e costanti cedole (con rendimento annuale dell’azione attorno al 7,7% sull’utile 2019, sui massimi in Europa), la seconda con un recupero che ha portato il rendimento 2019 al 4,5%: anche a fronte di nuovi tagli di personale. La presentazione dei conti Unicredit, festeggiata in Borsa, ha anzi anticipato al 2020 l’aumento della distribuzione di utili fino al 50% (oggi è al 40%), ed è previsto un riacquisto di azioni da 500 milioni per accrescere la redditività. Il rilancio di Unicredit nel 2016 impose una richiesta fondi per 13 miliardi ai soci, e un parallelo esubero di 14 mila lavoratori in tre anni. E il piano 2019-2023, variato a dicembre, stima 8 mila altre uscite e 500 sedi chiuse. Proprio ieri Unicredit ha scritto ai sindacati italiani — da mesi sul piede di guerra — che punta a 6 mila uscite in Italia (5.500 “nuove”) per chiudere 450 filiali (in Germania e Austria gli accordi per gli altri 2 mila sono già stati siglati). Il negoziato comincia: i sindacati protestano, e la ministra del lavoro Nunzia Catalfo ha convocato il 21 i vertici Unicredit a Roma.
Ma qual è il giusto mezzo tra redditività del capitale e parametri cari a chi porta interessi diversi, come famiglie e imprese clienti e i lavoratori? La risposta va legata al contesto. «In questa fase è difficile rintracciare comportamenti normali tra banche e azionisti — dice Luca Erzegovesi, docente di finanza aziendale a Trento — . L’alto rendimento pagato dalle banche agli azionisti è l’altra faccia di una redditività ancora sotto al costo del capitale. È come se il mercato dicesse ai banchieri: i rischi legati ai cambiamenti tecnologici e di modello vanno remunerati anche restituendo il capitale tramite le cedole». Un classico dei settori in declino: e l’esatto opposto della generosità riservata dagli investitori alle richieste di capitale delle Fintech, in fase di start up o comunque con rendimenti minimi o negativi. Di recente Goldman Sachs, colosso delle banche d’affari Usa, ha stimato di arrivare a 120 miliardi di raccolta con la sua piattaforma digitale Marcus. «È un caso che mostra bene su quali società finanziarie il mercato vorrebbe trovarsi», aggiunge Erzegovesi. È per rincorrere simili paradigmi che i banchieri ora corteggiano gli azionisti; l’alternativa è perderli, e vedere le quotazioni scendere a frazioni del valore di libro. Com’è per tanti istituti a Piazza Affari, che in media non arrivano a valere la metà del loro patrimonio netto.
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